La misura del dubbio è una trappola finemente congegnata per lo spettatore dal magistrale Daniel Auteuil

  • Postato il 20 settembre 2024
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Senza nulla togliere a Daniel Auteuil che qui si supera imperioso e magistrale tra scrittura, regia e interpretazione, ma La Misura del dubbio (in originale Le Fil) possiede quella inimitabile e corale credibilità attoriale e quella solidità generale di messa in scena che il cinema francese sembra avere oramai da decenni per default. Nel 2017, in una Camargue arida e invernale, l’avvocato Jean Monier (Auteuil) prende per caso la difesa d’ufficio di Nicolas Milik (Gregory Gadebois, superbo), un omone padre di tre figlie e due figli, marito di una donna alcolizzata violenta e imprevedibile che è stata trovata morta con la gola tagliata poco fuori dal paese in cui abitano.

Monier si autoconvince dell’innocenza di Milik che, secondo l’accusa avrebbe invece ucciso la moglie assieme al barista Roger suo caro amico che lo invitava da tempo ad “essere uomo” e sbarazzarsi di lei. Nonostante l’ultima difesa di un presunto assassino poi rivelatosi un omicida vero, il killer degli anziani, risalga a molti anni addietro, il compassato Monier si ostinerà e farà di tutto per scagionare Milik mostrando ripetutamente, durante il processo che si svolgerà nel 2020, la fallacia dei testimoni e l’indimostrabilità degli indizi dell’accusa che non riescono a farsi prove schiaccianti.

Auteuil si cuce letteralmente addosso i panni di un avvocato distinto ma di provincia, ispido e sdrucito, qualche sigaretta di troppo e mai la cravatta sotto la giacca, che gestisce lo studio legale assieme alla sua collega e compagna. I primi piani, i mezzi busti e le figure intere sono spesso per lui, ma La misura del dubbio non è mai l’autoritratto del “quanto sono bravo a fare tutto”. Semmai è un’opera abilmente modulata tra le atmosfere di legal drama e di una forma calibratissima e mai stucchevole di intimismo. Chiaro, in quello che è un palco naturale di recita teatrale, l’aula del tribunale, Auteuil eccelle in maniera vistosa, ma è quando si ricostruiscono gli sfumati flashback dell’omicidio, quando la macchina da presa sconfina in esterni (anche con sequenze metaforiche e/o simboliche) che questo film intensifica le sue fibre di poetica tenuta e visiva robustezza.

La misura del dubbio, in un certo senso, è una trappola finemente congegnata per lo spettatore, una caverna misteriosa di (in)certezze e allusioni, di etica professionale (degli avvocati) e di umana arbitraria sensibilità. Tratto dal libro Cronache della giustizia penale ordinaria scritto dall’avvocato Jean-Yves Moyart, Maitre Mo per le decine di migliaia di persone che lo hanno seguito sul suo blog e profilo Twitter per anni, morto a soli 53 anni, La Misura del dubbio in originale fa Le fil, un riferimento ad una particella di filo blu rimasta sotto un’unghia della vittima, indizio su cui si gioca il giudizio finale verso l’imputato. Gadebois è un altro fenomeno proveniente da sei anni di Comédie-Française: sarà per questo che questi attori e attrici offrono continuamente nei film prodotti in Francia performance fuori dal normale?

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Il Fatto Quotidiano

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