“La mia ex moglie mi ha detto ‘sei la casa che resiste al fuoco di Los Angeles’. Cerco di provocare le persone per aprire la mente, non sono un pagliaccio”: parla Luchè
- Postato il 19 maggio 2025
- Musica
- Di Il Fatto Quotidiano
- 1 Visualizzazioni
.png)
“Pistola che baci la mia tempia, tu hai il potere, tutto dipende da te”, dice Luchè, accompagnato da un lieve sottofondo di chitarra, in “Lettera alla pistola alla mia tempia”, uno dei diciotto brani presenti nel suo ultimo disco, “Il mio lato peggiore”, uscito venerdì 16 maggio. Il rapper napoletano si è messo a nudo, ha fatto i conti con i traumi del suo passato. Li ha affrontati, analizzati, raccontandoli nell’album.
Poco meno di un’ora di musica dove Luchè ha ben alternato i pezzi da club a quelli maggiormente intimi ed introspettivi. Il progetto è solido e, molte canzoni, invitano al riascolto per essere comprese appieno. Dopo la pubblicazione del disco, il rapper napoletano si esibirà il 5 giugno allo Stadio Diego Armando Maradona (Napoli) e, per concludere il tour estivo, Luchè suonerà all’Unipol Forum (Milano), il 15 settembre. L’artista, a FQ Magazine, ha raccontato la genesi dell’album ed offerto una panoramica sulla scena urban.
Com’è nato il progetto? Hai seguito un filo rosso nella creazione dei brani?
Mi sono fatto trasportare dal mio stato d’animo, ero più arrabbiato negli ultimi anni. Ricevere tanto odio mi ha stimolato, dandomi un motivo in più per dimostrare che se mi dai il beat giusto io ci vado pesante, come magari qualcuno o si è dimenticato o fa finta di non sapere. La mia vita abbastanza estrema unisce tutto. Dopo l’altro disco (“Dove Volano Le Aquile”, 2022; ndr), che era più introspettivo, è ritornata quella grinta che ho sempre avuto.
Dai testi del disco emerge il tuo lato più oscuro. Come mai hai deciso di mostrarlo?
Avevo questa rabbia e determinazione di spaccare ancora tutto. Volevo che l’album avesse un impatto hard, poi dei brani più melodici, atmosferici ed alcuni molto intimi come lo skit (nell’hip hop, è una forma di sketch parlato, ndr) e “Se non ci fosse la rabbia”, dove voglio comunicare che anche le persone forti hanno un lato debole e non devono avere paura a metterlo in luce.
Su Instagram hai scritto “A breve avrete in mano il nuovo me, che poi così nuovo non è, solo più libero da tutto”. Da cosa ti sei liberato?
Vorrei essere più aperto al pubblico, esternare tutte le mie idee, sbagliate o giuste che siano. In passato mi sono trattenuto un po’, facendomi “un torto da solo”. Se avessi comunicato diversamente, magari, la gente mi avrebbe potuto conoscere un po’ più a fondo invece di soffermarsi (solo) sulla canzone che va virale. Mi sono liberato da questi freni, ho meno peli sulla lingua. E voglio che alle persone arrivi che non dobbiamo avere paura di pensare con la nostra testa e di avere delle opinioni. Oggi si fa gara ad avere consensi ed è sbagliato perché dovremmo puntare ad essere noi stessi.
Tema ricorrente del disco è la “solitudine”. Dici di “aver vinto su tutto, tranne che sulla solitudine” e di “non saper stare da solo”. Da dove nasce il rapporto conflittuale con la solitudine?
Secondo me ci sono due tipi di solitudine. C’è quella amorosa, ovvero di non trovare una persona che, nel bene e nel male, sia disposta a vivere questa “missione” insieme a te. Molta gente vuole solo il bello che deriva da questo lavoro, ma quando una persona cerca di costruire il proprio impero rischia tutto quello che ha. Si rischia la propria immagine e ci sono tanti momenti cupi e non tutti sono disposti a viverli. Sono una persona estremamente emotiva, ho degli sbalzi di umore frequenti e il mio mondo è comunque difficile. Devi avere le spalle larghe. La mia ex moglie mi ha detto “Tu sei la casa che resiste al fuoco di Los Angeles”.
E l’altra solitudine?
È quella di chi non combatte. Prima dei soldi, il mio obiettivo è quello di lasciare un’impronta e, spesso, provo questa solitudine perché ci vuole coraggio a fare dei dischi che possano far ragionare. Non tutti sono disposti a camminare in quella direzione perché è la più difficile. Cerco di provocare le persone per aprire la loro mente, voglio che sia importante la mia musica per dire anche delle cose scomode. Non m’interessa non mettermi contro nessuno per guadagnare. Se mi metto contro qualcuno lo faccio veramente. Non mi si può dire che sia un pagliaccio o una marionetta”.
Giorgia si rivolge a te e a Marracash quasi a ricordarvi che “Quello che conta non è il risultato”, ma l’importante è il percorso. Sempre più artisti sono dipendenti dai numeri.Perché si è arrivati a questo punto?
Siamo tutti un po’ vittima dei numeri. La vittoria è molto stereotipata e viene vista solo se fai un certo numero di dischi di platino, se compri quell’orologio, se hai quell’auto e quella casa. Sono tutti dei manichini che si vestono, dicono e fanno le stesse cose. Questo è ciò che viene tramandato ogni giorno sui social, nella vita e quindi, quando entri in questo circolo vizioso, l’unico modo è streammare più degli altri. Non importa più cosa rappresenti, cosa dici e che tipo di artista sei. Conta solo il risultato finale perché è quello che legittima il successo. Evidentemente questi ragazzi – non dico tutti – devono ancora scoprire molto del loro lato interiore.
Che rapporto hai con gli streaming?
Voglio mantenere questa mentalità che il successo non è determinato dalla posizione in classifica o da quanti dischi hai venduto. L’importante è l’impatto che la mia voce ha sulle persone, perché non tutti hanno cose da dire e, in secondo luogo, non tutti hanno una lotta interiore. Anch’io potrei pensare solo a fare qualche hit, fare soldi e poi mi levarmi dal ca**o, ma non mi appartiene.
In “Ilary” canti: “Faccio ‘Sì sì’ quando volano minacce, ma rapper si diventa, criminali si nasce”. Marracash diceva: “Conosco un criminale, vorrebbe fare il rapper, conosco un rapper, vorrebbe fare il criminale”. C’è, nelle nuove generazioni di artisti, un’eccessiva ostentazione del mondo criminale?
In alcuni casi è diventata un po’ stereotipata. Ma ti accorgi quando uno sta recitando perché è il talento del momento e ti accorgi anche quando l’artista è reale. Il nostro mondo ti risucchia talmente tanto che se non gestisci bene alcune situazioni è un attimo che si passi da una minaccia in una rima alla realtà. Prima l’economia attorno al rap era bassa e noi eravamo visti come degli sfigati. Oggi il rapper di periferia che ce la fa muove un’economia grossa e viene visto come un obiettivo dalle persone. Per questo devi stare molto attento: se sei intelligente vai via dal quartiere, se ci rimani ti devi circondare da persone che ti proteggono.
In “Morire vuoto” dici: “La verità fa male a chi nasconde i suoi difetti. Ho detto che la città è pericolosa e mi hanno ucciso nei commenti”. C’è qualcuno che ti era vicino che ti ha voltato le spalle, sentendosi “tradito” dai tuoi racconti?
No, non mi è mai successo. In un’intervista avevo detto che Napoli è una città pericolosa e, in quel momento, si diceva solamente che Napoli fosse perfetta. Perciò ho fatto un gioco di parole. Ma non possiamo dire ancora che Napoli non abbia le difficoltà di un tempo. Non starò mai zitto e, se uno mente a sé stesso e l’altro gli dice la verità, è ovvio che si rimane “offesi”. Dobbiamo sottolineare le qualità di Napoli ma anche denunciare dove possiamo fare meglio. Solo così la città potrà crescere veramente.
Ti definisci: “Perfezionista ma pieno di dubbi. La terapista mi ha detto che è stata la mia famiglia a criticarmi ed a umiliarmi davanti a tutti”. Che rapporto hai con la terapia?
Mi ha cambiato. La terapista mi diceva che ero così perché avevo un carattere esuberante da piccolo. Mamma e papà cercavano di tenermi calmo invece di lasciarmi libero di essere un bambino così curioso. Questa cosa mi ha fatto percepire come “sbagliato” e questi sono dei traumi innocenti che, in quel momento della mia vita, mi hanno fatto sentire umiliato. I traumi hanno scaturito in me questo complesso d’inferiorità dove mi sentivo sempre inadeguato.
“E vuoi che cresca un figlio in un mondo che non ha ideali”. Nelle strade e nella microcriminalità, è come se non ci fossero più codici né ideali. Era così anche quando eri più giovane?
Credo sia più un cambiamento generazionale. Quando ero più piccolo e stavamo nelle periferie c’era ancora il ruolo di chi comandava. Adesso si è abbassata l’età e quindi ci sono meno codici, anche se, già anni fa, notavo che succedevano cose che mi facevano pensare: “Ma i codici dove ca**o stanno se, ad esempio, bruciano viva l’ex fidanzata di uno?”. Forse questo discorso sui codici della strada è stata sempre un’utopia.
“Guardo al futuro pieno di entusiasmo”, dici in “La mia vittoria”. Dove ti vedi nel tuo futuro?
Diviso a metà tra l’Italia e l’America. Vorrei trovare un equilibrio tra la mia vita professionale e quella personale. Però dal punto di vista musicale voglio essere molto più attivo adesso che è ripartita la macchina.
L'articolo “La mia ex moglie mi ha detto ‘sei la casa che resiste al fuoco di Los Angeles’. Cerco di provocare le persone per aprire la mente, non sono un pagliaccio”: parla Luchè proviene da Il Fatto Quotidiano.