La Medea di Corneille, una tragedia che è un intreccio di passioni: violenze, dolori, vendette, psicanalisi. Così ha cambiato la storia dell’opera

  • Postato il 11 maggio 2025
  • Cultura
  • Di Il Fatto Quotidiano
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A volte i miracoli accadono. Un docente di Storia dello spettacolo e di Storia della musica all’Accademia di Belle Arti di Torino, Alberto Ausoni, addottorato a Parigi, dedica la sua vita alla cultura francese del Grand siècle, il Seicento. Si concentra su un testo fra i più complessi del teatro moderno, la Médée di Pierre Corneille, della quale il pubblico odierno in Italia sa poco o niente. Scrive un libro di alto spessore intellettuale, traduce e annota con infinita cura il testo – i versi alessandrini dell’originale diventano versi martelliani, ossia doppi settenari italiani – e infine affida il volume a un coraggioso editore di Leonforte, provincia di Enna: Siké. Insomma, in tempi in cui applicazione e acribia sono virtù rare, ci godiamo un segnale di bellezza, scienza, magnificenza. E ne siamo grati ad Ausoni e all’editore. Il libro è uscito un anno e mezzo fa, ma è di quelli che restano per i decenni a venire: dunque, non lo passiamo sotto silenzio.

Corneille è conosciuto soprattutto per Le Cid, la tragicommedia di soggetto spagnolo che nel 1637 scatenò a Parigi una famosa querelle. Ma è un capolavoro anche Médée. L’argomento mitico è intessuto di passioni contrastanti e feroci, e instaura una complessa rete di rapporti con un passato letterario illustre, Euripide e Seneca. Al mito greco della maga, donna tradita e vendicativa, ha attinto anche lo spettacolo dei secoli a venire. Basti ricordare la Medea di Luigi Cherubini (1797) e il film di Pier Paolo Pasolini per il cinema (1969); in entrambi eccelse Maria Callas. In più, il mito rimanda ad altri saperi e discipline, psicoanalisi e psichiatria innanzitutto. E non può che essere così. La gelosia è una passione lacerante, induce sofferenze lancinanti, coinvolge l’intero essere, converte l’amore in odio, scatena violenze e vendette. Dunque non può non interessare chi indaga i moti della psiche e gli abissi dell’inconscio, da Freud a Lacan, per dirne solo due.

Corneille manda in scena Médée nel 1635 (la pubblica nel 1639). La terribile vicenda osserva l’unità di tempo: lo sgomentevole intreccio di passioni feroci deve dunque svilupparsi e risolversi con una corsa affannosa. Il drammaturgo ha negli occhi i modelli letterari antichi, ma decide di volta in volta quali varianti del mito accogliere. Il soggetto è sempre quello: la donna tradita si vendica del fedifrago Giasone uccidendo i figli del loro passato amore. Il debito primario è nei confronti di Euripide: manca infatti l’infanticidio in scena, che invece Seneca esibisce. Il motivo è presto detto: gli spettatori francesi del Seicento non avrebbero tollerato la flagranza di un tale atto. A Seneca si rifanno invece i lunghi monologhi, che danno plastico risalto all’immagine della maga dedita ai saperi occulti. Nuova è invece la complessità attribuita alla rivale, Creusa, a differenza dai due autori antichi: la fanciulla è qui “egoista, capricciosa e manipolatrice”, desidera con ardore la veste sontuosa di Medea, quella che la maga ha portato con sé dalla Colchide. La richiede a Giasone in ricompensa della sua dedizione. È una pretesa colma di vacua vanità, e lei ne sarà punita: la veste magica la brucerà in un mare di fiamme. La vendetta di Medea, figlia del Sole, si concreta così nel modo più atroce.

Ma lo spettatore del Seicento esige anche qualche intreccio amoroso. Egeo, l’anziano re di Atene, soggiorna a Corinto: spasima per Creusa, è dunque un rivale di Giasone. La situazione ha tratti comici, che si rifanno ai vecchi libidinosi della tradizione plautina. Su tutto sovrasta però lei, Médée, “minacciosa, vendicativa e dai terribili poteri”. E qui il modello è di nuovo Seneca. Maledice Giasone, la brama di vendetta è alimentata sia dall’ingratitudine del neghittoso eroe tessalo – le sue famose gesta sono state propiziate dalle arti magiche di lei – sia dal tradimento del vincolo coniugale. La memoria indugia ossessivamente sul trauma dell’abbandono. L’odio domina, assieme alla volontà di nuocere: ogni gesto che esprimeva amore ora diventa un segnale di odio: “Ciò che il mio amore estremo ha fatto in tuo favore, / lo rifarò per odio”. Il vincolo amoroso forte e potente è rotto per sempre. Subito dopo, con le parole Sono ancora me stessa, rivendica la sua natura oltranzistica, eccelsa negli affetti come nelle passioni devastanti. Medea è autosufficiente, l’orgoglio smisurato e l’ego prorompente sono siglati a fuoco in queste poche parole. Non ha bisogno di alcuno, la sua opera, d’ora in poi, sarà solo punizione, distruzione, morte, e per abbattere il coniuge si spingerà fino all’atroce infanticidio. Medea è al di sopra degli altri: sovrumana l’eccitazione del pensiero e del cuore, impossibile da eguagliare e da comprendere. Eppure – qui si staglia la grande ricchezza del personaggio corneliano – per un attimo indulge anch’essa al ripiegamento nostalgico: rimpiange di aver lasciato la Colchide e la Tessaglia e d’essere sbarcata a Corinto, lì dove Giasone è rimasto abbagliato da Creusa. Medea è un’esule, una “barbara“; ha assistito impotente allo sbocciare dell’amore dei due attraverso lo sguardo, la visione. Il fugace riferimento è alla fisiologia dell’amore, elaborata dal pensiero greco, per il quale “la forza irresistibile dell’eros è legata alle dinamiche della visione e alla fascinazione dell’occhio”.

Giasone sarà annientato. Nell’ultimo dialogo, la designa con appellativi tremendi: non è una donna, non appartiene al genere umano, è “furia esecrabile“, “tigre“, “strega“. Il troppo dolore per l’uccisione dei figli lo accascia, lo spinge al suicidio. Una fine silenziosa e senza eroismo. Non può vendicare Creusa, non può vendicare i bambini. Solo gli dèi possono farlo. Il sipario cade su un dolore infinito, indicibile, immenso. E a noi rimane lo sconvolgimento procurato da un testo altissimo, martellante e fiammeggiante, che indaga e “presentifica” i reconditi recessi dell’anima umana.

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