La maturità cambia, la scuola no: un secolo di esami e un sistema che non sa più bocciare

  • Postato il 1 novembre 2025
  • Di Panorama
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Da un secolo la maturità cambia forma, ma non sostanza. Nacque con la riforma Gentile del 1923, che istituì l’“esame di maturità” come verifica finale della formazione liceale e passaggio obbligato per accedere all’università; la prova doveva certificare non solo le conoscenze, ma la “maturità spirituale” del candidato: la capacità di pensare, giudicare, argomentare. Da allora, ogni generazione di studenti ha trovato un esame diverso: con o senza commissari esterni, con più o meno scritti, con tesine, griglie, crediti e prove d’indirizzo. È un termometro fedele delle nostre febbri educative e pedagogiche: quando si vuole rigore, s’inasprisce l’esame; quando s’invoca inclusione, si addolcisce; quando si sogna modernità, si digitalizza.

Il problema sta nel fatto che la scuola che la precede — quella che giorno dopo giorno forma gli studenti e le studentesse — è rimasta, in apparenza, la stessa: stesse aule, stessi orari, stessa divisione per età, stesso calendario annuale. Il corpo è fermo, solo l’abito dell’esame cambia. Eppure, se la forma del contenitore scuola non è mutata, la sostanza sì. La scuola di oggi è più debole, meno esigente, più lassa nei giudizi: è una scuola che teme il conflitto, che misura le parole per non finire in un ricorso, che si muove sotto il tiro incrociato delle critiche — giuste o sbagliate che siano — di studenti, genitori, stampa e tribunali. Una scuola che ha perso parte della propria autorevolezza e che, forse per questo, accompagna tutti alla – e nella – maturità con mano troppo leggera, nonostante il termine “esame” risuoni ancora nelle nostre quinte provando a incutere timore, con sempre minore efficacia, proprio come una grida manzoniana. Si aggiunga peraltro che la maturità, in teoria, è ancora selettiva e può non promuovere, ma i numeri dicono altro. Da anni, il 99% dei candidati supera l’esame e il restante 1% diventa subito un caso mediatico, come se fosse un’anomalia statistica o una crudeltà burocratica. Queste percentuali tanto rosee, però, stonano con altri riscontri: basti guardare i dati Invalsi, se ci si vuole fermare ai dati, che ogni anno segnalano competenze in calo, soprattutto in matematica e comprensione del testo, con una quota crescente di diplomati che non raggiunge i livelli minimi. Ma questa è un’altra storia, anch’essa scottante, che merita una riflessione a parte.

Il punto della questione non è bocciare di più, far selezione, tornare ai vecchi tempi, ma restituire coerenza al sistema. Ecco, se davvero servisse una riforma, bisognerebbe intervenire qui: o si accetta che la scuola possa non promuovere — senza drammi, senza processi —, oppure si dichiari apertamente che l’esame è solo un rito simbolico, una cerimonia di fine corso. Oggi, invece, restiamo sospesi in una strana ipocrisia: un esame “giusto”, “equo”, “inclusivo”, che però deve sempre far tornare i conti. Tutti promossi, tutti maturi, tutti contenti, a parte i rari casi che scandalizzano il Paese, come lo studente che ha scelto di tacere all’orale per protesta. Quello sì, pare intollerabile: non tanto il silenzio, quanto il sospetto che dietro ci sia una domanda vera sulla maturità del sistema stesso, così rigido e così fragile insieme. La maturità cambia sempre, la scuola no. O meglio: non cambia ciò che dovrebbe cambiare, e si indebolisce in tutto il resto. Da un secolo l’Italia discute l’esame di Stato, ma il vero esame — quello della scuola e del suo coraggio educativo — resta ancora da sostenere.

Autore
Panorama

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