“La marijuana? Connessione speciale con la musica, ma se ne abusi è intossicazione. Speriamo è un invito alla fiducia in un epoca difficile”: così Venerus
- Postato il 6 novembre 2025
- Musica
- Di Il Fatto Quotidiano
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Tra una citazione di “1971” e una di Nick Cave la “speranza”, per Venerus, esisterà finché la musica si porrà “l’obiettivo di parlare al cuore delle persone”. “Speriamo”, il terzo album in studio dell’artista, prende il titolo da una parola che meglio racconta il tempo in cui viviamo. “Basta ascoltare le conversazioni per strada, la voce dei commentatori in radio o il linguaggio quotidiano per riconoscere dentro a questo termine un desiderio collettivo di fiducia e abbandono al destino”, ha spiegato Venerus.
Il progetto, concluso appena poche settimane fa, ha vissuto innumerevoli trasformazioni prima di trovare la sua collocazione definitiva. La musica, i beat, erano rimasti sospesi mentre prendevano forma e venivano scartate decine di idee e canzoni. Solo dopo aver abbozzato diversi testi è arrivata la veste musicale, costruita con un approccio sperimentale. Sono proprio le sonorità, in “Speriamo”, a spiccare particolarmente. L’artista si è misurato su diversi generi e strumentali. Il risultato finale, oltre che essere musicalmente armonioso, è coerente col percorso artistico intrapreso da Venerus.
Le tracce sono 14 e, accanto all’artista, si sono unite le voci di Mahmood, Cosmo, Mace, Izi, Gemitaiz, Side Baby, Jake La Furia, Marco Castello, Altea, Amanda Lean e Not for climbing. La copertina del disco è un quadro a olio realizzato da Cleopatria. L’opera ritrae Venerus spoglio di ogni orpello, abbandonato tra le braccia di un albero all’ingresso di un bosco, con accanto la sua moto e la mano intrecciata a quella di una figura nascosta dietro il tronco. In occasione dell’uscita di “Speriamo” prevista per domani, 7 novembre, l’artista ha approfondito, a FQMagazine, la genesi del suo nuovo progetto discografico.
“Ci credo che la musica salverà il mondo”, canti in “Cool”: da dove nasce questa convinzione?
Nasce dalla mia esperienza personale e poi anche dal rendersi conto di ciò che ha fatto la musica per le persone. Ci sono stati anche periodi storici in cui è stato più evidente ciò che la musica ha reso possibile. C’è un documentario, “1971”, che fa vedere cosa succedeva tra apartheid e Vietnam. Mostra quanto la musica è riuscita a cambiare le sorti della società e a unire le persone. Finché esisterà la musica che ha l’obiettivo di parlare al cuore delle persone sarà così.
“Non sai quanto vorrei fosse più facile parlarti di quello che vivo”, dici in “La chiave”, salvo poi affermare, in “Quello che resta”, di non avere “più paura di parlarti di come mi sento”. Hai raggiunto questa consapevolezza o è una tua cosciente contraddizione?
Stavo leggendo ieri un libro di Nick Cave che parla spesso di Dio. È interessante perché l’intervistatore gli fa notare che, quando Cave parla della sua fede, dice sempre che la cosa importante è che non ci sia certezza. E gli chiede se non fosse una contraddizione il fatto che la fede, in quanto tale, dovrebbe essere un qualcosa in cui ti affidi. E Cave risponde che è sì una contraddizione, ma che rende significativa la fede. E, prendendo questo esempio, nella consapevolezza di quello che può essere un rapporto, è la stessa cosa. Non si può pensare di essere veramente presenti e sinceri se non ci si rende conto che è una costante lotta quella di capire sé stessi e darsi agli altri. Non sarebbe realistico pensare di raggiungere uno stato di completezza se non si partisse dalla difficoltà della comunicazione. La contraddizione è proprio quello che rende questo movimento verso l’altro reale.
“Non scoppiare i petardi sul futuro tuo”. È un invito a vivere alla giornata?
Per me ha due chiavi di lettura. Per la prima l’invito è quello di non festeggiare ora per qualcosa a cui vuoi arrivare ma non ci sei ancora. È un percorso di costruzione e, se festeggi qualcosa che non hai ancora ottenuto, è uno spreco di energie. L’altra interpretazione è più paterna. È il fare casino, il trattarsi male, anche come stile di vita. Avere consapevolezza che vivrai le conseguenze delle azioni che fai.
“Quando mi sveglio faccio un’altra canna, così comincio la giornata senza odiarla”, canti in “Pensieri parte 2”. Che rapporto hai con la marijuana?
Ho un rapporto molto positivo con la marijuana. Da metà agosto di quest’anno non sto più né fumando né bevendo. Sono entrato in un momento di stacco dopo anni di questa “frequentazione”. È un qualcosa che la natura ci ha dato e che ci permette di sbloccare delle dimensioni, in qualche modo. È una sostanza, se vogliamo chiamarla tale, che ha molta personalità. Nel momento in cui la si fa entrare nella propria vita, la marijuana, si prende tanto spazio. E se ci sono problemi o dubbi lì tira veramente fuori quello che spesso e volentieri si accusa come “ansia”. Come tutte le cose che vengono dalla natura si autoregolamentano e, nel momento in cui abusi di qualcosa diventa un’intossicazione che, oltre a livello fisico, può essere anche mentale.
Torna utile nel processo creativo?
Penso ci sia una connessione tra la marijuana e la musica molto speciale e unica. Non penso sia qualcosa di necessario. Le esperienze umane sono belle perché sono varie ma anche molto personali. È un incontro che si può fare come esperienza di vita, ma che invito, sia le persone che me stesso in primis, se vogliono provare questa cosa, a farlo con intelligenza. È fondamentale non associare l’esperienza della marijuana all’unico momento in cui si provano sentimenti ed emozioni. Vissuta in questo modo può essere un’esperienza speciale. Ma, quando diventa una necessità o una via d’uscita, diventa un problema.
In “Okay” canti: “Ed è così che va se non distingui ciò che fai, ciò che sei. Ti senti solo in mezzo agli altri, forse puoi partire da qui”. Ti sei mai sentito completamente “risucchiato” dal personaggio?
Ci sono stati momenti in cui è stato difficile avere una prospettiva concreta su di sé. Sono cresciuto introspettivo e solitario, cercando anche l’approvazione degli altri. Quando incomincia ad arrivare qualcuno che ti riconosce, all’inizio, ti perdi un po’ in questo riflesso falsato. E se ti perdi nel riflesso perdi il punto di vista del viaggio. La chiave è continuare a cercare, sperimentare. Non il sentirsi arrivati. Ma non è sempre facile perché siamo umani e se ricevi un po’ di approvazione è facile perdersi. E sicuramente un po’ di quello c’è stato.
“Comincio a capire i 30 anni, anche se un po’ li sento i 20”: cos’hai capito dei 30 e cosa non vuoi ancora lasciare dei 20?
Ho capito che dai 18 ai 20 anni uno si sente iper-protagonista. Sente che sta scrivendo ogni passo del proprio percorso, come se non ci fosse un domani. Questa cosa è splendida, ma ha un doppio lato della medaglia. Da una parte non pensi troppo al futuro ma, allo stesso tempo, stai anche cercando una direzione. Poi arrivano i 30 e ti rendi conto che questo protagonismo, da un certo punto di vista, è insostenibile. Sia perché non si è soli nel mondo, ma anche perché si ha davanti tutta la vita. Arrivi alla fine dei 20 anni e dici: “Ca**o ho fatto tutto”. Poi ci pensi un attimo e ti rendi conto che sei solamente all’inizio. Questo fuoco che brucia forte rimane, però, devi alimentare anche il resto della tua vita. E ti rendi conto che ci sono nuovi ritmi e cose da prendere in considerazione. Anche per quanto riguarda l’accettazione di sé e degli altri. Ti crollano miti ma, per quanto mi riguarda, provi a costruire una prima stabilità mentale.
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