“La maestra maltrattò la mia compagna di scuola ebrea: capii cos’era il fascismo e mi ribellai”: i racconti dei partigiani

  • Postato il 25 aprile 2025
  • Politica
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Anche Re Carlo III nella sua recente visita in Italia li ha voluti onorare citandoli nel suo discorso alla Camera e incontrandoli nella sua tappa a Ravenna: sono i partigiani, quegli uomini e quelle donne che hanno fatto la Storia del nostro Paese con la Resistenza. Quelli che sono ancora vivi e in grado di portare la loro testimonianza sono pochi ma nessuno di loro ha mai pensato che non valesse la pena fare la scelta di schierarsi contro il nazifascismo.

Tutti hanno un comune denominatore: la famiglia. Per Luciana Romoli, classe 1930, ribellarsi alla maestra fascista e poi entrare a far parte delle staffette è stato il frutto di un’educazione anti-fascista respirata in casa così è stato anche per Gastone Malaguti: “Impossibile stare dall’altra parte con un nonno anarchico e un padre che ha sempre lottato contro Mussolini”. Stesse ragioni per la centenaria Sandra Gilardelli alla quale è stato dedicato il recente docufilm La partigiana e la rosa rossa.

Ilfattoquotidiano.it anche quest’anno ha scelto di raccontare le storie dei partigiani attraverso la loro voce per capire, 80 anni dopo la Liberazione, cosa li spinse a fare quella scelta, quali erano i loro sogni ma soprattutto se pensano ancora che ne sia valsa la pena.

Luciana Romoli, nome di battaglia Luce
“Volevo studiare e nonostante con mia sorella, a soli otto anni, siamo state espulse dalla scuola per esserci messe contro la maestra fascista, oggi, se lei viene a casa mia vedrà la mia laurea di biologa. Ho fatto la quinta a 19 anni; mi sono diplomata in ragioneria a trenta e a 45 ho coronato il mio sogno”. Luciana Romoli, nome di battaglia Luce, a 95 anni ricorda come se fosse ieri la sua scelta presa senza dubbi, con la certezza, nonostante fosse bambina che dovesse fare quello che mamma, papà e zio le avevano insegnato: difendere la libertà di tutti. “Erano state emanate da poco le leggi razziali e la mia migliore amica, una bambina ebrea che abitava nel mio stesso palazzo iniziò a frequentare la mia classe. Una mattina – racconta Luciana – entrammo in aula e al posto della nostra maestra c’era una giovane supplente mai vista prima, vestita di nero. Ci disse di far parte delle ‘Giovani italiane’. Durante l’appello, arrivata al nome della mia amica Debora Zarfati, iniziò ad insultarla perché era ebrea dicendole che sarebbe stato il suo ultimo giorno di scuola. La prese, la trascinò vicino alla finestra e le legò le lunghe trecce alla maniglia. Poi ci chiese di scrivere sul quaderno dei pensierini sugli ebrei. Una delle mie compagne si oppose e si prese uno schiaffo che le fece finire la testa sul calamaio. L’inchiostro le schizzò sul volto, sul grembiule: urlava perché non vedeva più. A quel punto ci siamo ribellate: abbiamo preso a schiaffi la maestra, le abbiamo rotto un dente e il naso”. Luciana non ha dimenticato il momento in cui hanno finalmente sciolto le trecce a Debora. “La maestra – continua – a quel punto ci ha intimato di andarcene a casa ma il portiere se la prese con lei perché voleva vedere un’autorizzazione firmata per far uscire tutte quelle ragazzine. Una volta lontane dalla scuola mi venne un’idea, la migliore che abbia mai avuto: raccontare tutto a mio padre, fargli scrivere un volantino contro la maestra e farlo stampare da mio zio tipografo per poi distribuirlo nelle aule”. Così fecero. Tredici plichi di fogli arrivarono a scuola. Quei volantini giunsero in ogni famiglia e in tutta Roma. “A quel punto venne chiesto alla direttrice della scuola – dice “Luce” – di effettuare un’indagine e trovare i colpevoli oppure di espellere tutti gli alunni. Io e mia sorella confessammo. Il giorno stesso partì un fonogramma che diceva che saremmo state espulse per ribellione”. Da quel giorno fin dopo la guerra le due bambine non potettero più studiare. “Avevo tredici anni – prosegue Luciana – ma volevo entrare a far parte delle staffette. Il comandante era titubante ma alla fine mi prese dandomi il mio nome di battaglia. Oggi rifarei tutto senza alcun dubbio. E’ stato un mio dovere aiutare quella compagna. La libertà va difesa, sempre. Lo dico anche ai giovani di oggi”.

Qui la testimonianza di Luciana Romoli sul portale Noipartigiani.it

Sandra Gilardelli
Tra tre mesi spegnerà cento candeline la staffetta Sandra Gilardelli. Marco Manzoni le ha dedicato il docufilm La partigiana e la rosa rossa, pronto per le celebrazioni dell’ottantesimo della Liberazione. La partigiana Sandra è orgogliosa di ciò che ha fatto, non si è mai pentita. Nel febbraio del 1943 si trasferì con la famiglia a Pian Nava, nel Verbano, sopra Intra. Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre entrò in contatto con la brigata alpina Cesare Battisti e iniziò a collaborare quasi subito aiutando il medico a curare i feriti. Nell’agosto del 1944 conobbe il “tenente Mosca”, cioè Michele Mosca, partigiano, che sposerà qualche anno più tardi. “E’ valsa la pena fare quella scelta ma è stato normale, se si può usare questa parola. Mio nonno che abitava a Pavia – sottolinea Gilardelli – era un mazziniano convinto e mi insegnò che il fascismo è una dittatura. Senza libertà l’uomo non può essere felice”. Sandra è sempre stata certa di essere dalla parte giusta: “Il mio sogno da bambina era influenzato dalle parole di mio padre che essendo antifascista mi aveva spiegato che essendoci il fascismo non c’era libertà e che quest’ultima è la cosa più importante che l’uomo ha”.

Solo un rammarico guardando a quanto accade oggi: “Avrei voluto che ci fosse un governo diverso. Non mi vengano a dire che non c’è una certa aria fascista”. A cent’anni si permette anche una sorta di autocritica: “Forse noi partigiani dopo la fine della guerra abbiamo fatto l’errore di non andare subito nelle scuole. Io, ad esempio, ho iniziato verso il 1972 quando la figlia di amici che abitava a San Gimignano ne parlò alla maestra che invitò me e mio marito a fare una testimonianza in classe. Da allora non abbiamo più smesso. Lo faccio ancora oggi…”

Qui la testimonianza di Sandra Gilardelli sul portale Noipartigiani.it

Gastone Malaguti, nome di battaglia Efestione

Foto Marco Ponzianelli/ImagoEconomica

Gastone Malaguti è già noto ai lettori de IlFattoQuotidiano.it perché aveva raccontato la sua storia a questo giornale già lo scorso anno. Compirà 99 anni il 26 luglio, è felice di essere arrivato alla soglia dei cento alla faccia di chi lo voleva morto. Da buon bolognese scherza, ha la battuta pronta e invita il cronista a prendere un caffè: “Io son qui. Vi aspetto”. Ha sempre sognato in grande: “Ho visitato come sindacalista della Cgil quaranta Stati. Ho realizzato anche più di quello che volevo”.

Decise di diventare partigiano a 17 anni, meno di un mese dopo l’8 settembre. Tra i suoi nomi di battaglia c’è quello di Efestione: “Me l’ha dato il mio comandante Aldo ‘Jacopo’ Cucchi – ha raccontato una volta al Manifesto – perché scherzando lo chiamavo Alessandro Magno ed io ero il suo braccio organizzativo”. Dopo tanti anni resta una certezza: “Non avrei mai e poi mai potuto diventare fascista. Mia mamma era contro il Duce, mio padre venne massacrato di botte da loro. Io sono stato un Balilla solo per andare a scuola, ero costretto”. E’ stato uno dei protagonisti della battaglia di Porta Lame. “Era il settembre del 1944 e le truppe alleate ci fecero sapere che ormai si trovavano a soli quindici chilometri dalla città. Prendere Bologna era molto importante per questo tutte le truppe dei Gap dovevano farsi trovare lì. Noi avevamo avuto informazione che l’ospedale maggiore era stato raso al suolo ma i sotterranei erano ancora perfettamente agibili. Ci sistemammo lì in 230. Restammo in quel luogo asserragliati per settimane in attesa degli alleati che non arrivarono. Altri settanta occuparono una palazzina poco distante da noi. Un nostro compagno venne scoperto e i tedeschi attaccarono la palazzina ma quando entrarono non trovarono più nessuno perché i nostri compagni erano riusciti a fuggire. A quel punto uscimmo in maniera rapida e circondammo noi il palazzo preso dai fascisti. A Porta Lame, le Brigate nere e i tedeschi subirono le perdite maggiori. Ancora oggi ci sono le tracce delle bombe incendiarie che tirai io”.

Qui la testimonianza di Gastone Malaguti sul portale Noipartigiani.it

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Il Fatto Quotidiano

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