La lunga ombra di Pechino: come la Cina usa Israele per colpire gli Stati Uniti

  • Postato il 20 settembre 2025
  • Di Panorama
  • 1 Visualizzazioni

Negli ultimi due anni la Cina ha progressivamente intensificato la propria attività di influenza internazionale, utilizzando la questione israelo-palestinese come un’arma retorica per colpire Washington. Ciò che emerge, secondo esperti e rapporti indipendenti, è un quadro complesso in cui Israele diventa il bersaglio collaterale di una campagna strategica più ampia, diretta soprattutto contro gli Stati Uniti. Pechino, pur mantenendo relazioni economiche e diplomatiche stabili con lo Stato ebraico, ha scelto di amplificare messaggi anti-israeliani nei propri media ufficiali, descrivendo Israele e Washington come un tandem responsabile delle sofferenze a Gaza e come principali attori destabilizzanti del Medio Oriente. Una linea narrativa che si inserisce in un contesto globale in cui la Cina cerca di presentarsi come difensore del Sud globale e voce alternativa al “dominio americano”.

Propaganda e antisemitismo mascherato

La strategia cinese si articola su diversi livelli. I giornali controllati dal Partito Comunista, come il China Daily, hanno pubblicato articoli che non solo criticano apertamente Israele ma descrivono gli Stati Uniti come “criminali globali” che alimentano guerre ovunque intervengano. Un pezzo del 23 ottobre 2023, a pochi giorni dal massacro del 7 ottobre, accusava Washington di trovarsi “dalla parte sbagliata della storia” sostenendo Israele e di voler prolungare il conflitto per tornaconti interni. Questa retorica, osservano i ricercatori, non si limita a condannare le scelte israeliane, ma intende soprattutto minare la legittimità della leadership americana, presentando il sostegno a Gerusalemme come una decisione delle élite e non come una volontà condivisa dall’opinione pubblica. A questa dimensione si aggiunge un ulteriore livello di pericolosità: la diffusione di contenuti dai tratti chiaramente antisemiti sui social media cinesi. Sebbene Pechino dichiari di esercitare un ferreo controllo sulla rete interna, non ha fermato la circolazione di post che paragonano Israele alla Germania nazista o che descrivono lo Stato ebraico come un’entità “terroristica”. In alcuni casi, Hamas viene dipinto come un movimento di resistenza legittimo. L’assenza di censure mirate alimenta il sospetto che queste narrazioni siano tollerate, se non addirittura incoraggiate. «Israele viene trasformato in un simbolo utile a un’agenda più ampia: Pechino non cerca tanto di colpire lo Stato ebraico in sé, quanto di logorare la posizione americana nel mondo. Per farlo, però, utilizza narrazioni che finiscono per alimentare antisemitismo e ostilità verso le comunità ebraiche», spiega Ofir Dayan, ricercatrice associata presso l’Israel-China Policy Center dell’INSS.

Reti globali e attivismo radicale

Oltre alla propaganda ufficiale, Pechino sembra appoggiarsi a una galassia di organizzazioni e attivisti internazionali. L’imprenditore americano Neville Roy Singham e la moglie Jodie Evans, fondatrice del movimento Code Pink, sono al centro di una rete di ong, media indipendenti e piattaforme online che, secondo inchieste giornalistiche, ricevono fondi legati a circuiti vicini al Partito Comunista. Dal 2017, Code Pink ha ridotto le proprie critiche alla Cina, arrivando persino a giustificare le repressioni nello Xinjiang, mentre ha radicalizzato la propria campagna anti-israeliana. Dopo il 7 ottobre 2023, le sigle collegate a questa rete hanno guidato proteste universitarie negli Stati Uniti, alcune delle quali degenerate in violenza. Il culmine è stato raggiunto con l’omicidio di due dipendenti dell’ambasciata israeliana a Washington da parte di un attivista che orbitava in quell’ambiente.Questo intreccio di finanziamenti e militanza ha reso difficile distinguere tra spontaneità dei movimenti e operazioni di influenza coordinate. Secondo i ricercatori, proprio questa ambiguità è parte del metodo cinese: promuovere messaggi anti-israeliani attraverso canali apparentemente indipendenti, così da sfuggire a responsabilità dirette.

Le operazioni occulte e l’uso dei social

Uno studio di Graphika ha documentato come account anonimi, collegati a reti cinesi, abbiano amplificato il dibattito sulla guerra a Gaza negli Stati Uniti, diffondendo narrazioni ostili sia a Israele sia all’amministrazione Trump. Anche Microsoft ha rilevato schemi simili, parlando di campagne coordinate per sfruttare le proteste universitarie e spingere la narrativa secondo cui Washington “protegge Israele ignorando le sofferenze palestinesi”. Un’indagine del Taiwan AI Labs ha inoltre individuato una rete di troll attiva già prima del 7 ottobre, pronta a rilanciare contenuti negativi su Israele non appena fosse scoppiata una crisi. Questo modus operandi suggerisce una pianificazione accurata, con l’obiettivo di sfruttare ogni escalation per minare la stabilità politica americana. Alcune campagne si sono spinte fino a colpire direttamente figure politiche: il segretario di Stato Marco Rubio e il deputato Barry Moore sono stati bersagliati con attacchi che sfruttavano il loro sostegno a Israele, arrivando in alcuni casi a utilizzare un linguaggio di matrice antisemita.

Il paradosso è evidente: Pechino non intende compromettere i rapporti con Israele, che considera un partner tecnologico e commerciale strategico, ma allo stesso tempo utilizza il conflitto in Medio Oriente come leva per ridurre la credibilità americana. Israele, inevitabilmente, paga il prezzo di questo gioco a tre, subendo un’ondata di ostilità che colpisce anche le comunità ebraiche nella diaspora. Durante la guerra di Gaza, i rappresentanti cinesi hanno continuato a mantenere una presenza diplomatica attiva a Tel Aviv e a sottolineare l’importanza delle relazioni bilaterali. Tuttavia, dietro le quinte, la narrazione diffusa dai media e dalle reti di influenza vicine al Partito Comunista ha contribuito a consolidare un clima ostile contro Israele negli Stati Uniti e in altre democrazie occidentali. Di fronte a questa realtà, Israele si trova davanti a un dilemma. Da un lato, non può ignorare il ruolo della Cina nella diffusione di messaggi antisemiti e anti-israeliani; dall’altro, non può permettersi di compromettere i rapporti economici con Pechino, soprattutto in un momento in cui la guerra e le tensioni regionali rischiano di isolare ulteriormente lo Stato ebraico. Secondo Ofir Dayan, la strada più pragmatica è «mantenere un dialogo aperto con la leadership cinese, cercando di ridurre al minimo i danni derivanti dalla competizione tra Pechino e Washington. Israele deve vigilare affinché la sua immagine non venga sacrificata sull’altare dello scontro tra superpotenze». La Cina, in definitiva, non combatte Israele: lo utilizza. E nella logica di una guerra fredda del XXI secolo, giocata non con missili ma con narrazioni e propaganda digitale, lo Stato ebraico si ritrova, suo malgrado, al centro di una battaglia che non lo riguarda direttamente ma che rischia di eroderne la posizione internazionale.

Autore
Panorama

Potrebbero anche piacerti