La grande stanchezza: perché siamo sempre esausti (e come il cervello ci inganna)
- Postato il 2 novembre 2025
- Di Panorama
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Mattina presto. Mentre la città si risveglia, milioni di persone si trascinano tra letto e cucina, già stanche. È il nuovo stato d’animo collettivo di un’epoca che predica il benessere ma produce esaurimento: un italiano su 10 convive con una spossatezza che non passa, neppure dopo il riposo notturno o vacanziero.
La grande stanchezza che non passa
La grande stanchezza, contro la quale non servono ferie, relax, vitamine, integratori, massaggi. Appare invincibile e si acuisce, complice il passaggio dall’ora legale a quella solare, proprio come avvenuto la notte tra il 25 e il 26 ottobre. Ci fa rendere meno sul lavoro, nella vita sociale e familiare. Tendiamo a dare la colpa a mille cose — stress, insonnia, cambio di stagione, dieta sbagliata, frustrazioni — ma quasi mai pensiamo a quello che invece potrebbe essere uno dei principali responsabili: il cervello.
Il cortocircuito cerebrale della fatica
Un nuovo studio condotto da scienziati dell’Università di Verona, all’interno del programma europeo Mnesys sulle neuroscienze, imputa la stanchezza a un piccolo cortocircuito cerebrale che altera la percezione dello sforzo e amplifica la fatica.
Un meccanismo sottile, una sorta di “errore” che rende la materia grigia meno capace di valutare realisticamente quanto sforzo serva per compiere un’azione. A dimostrarlo, analizzando sia persone con patologie neurologiche come il Parkinson, sia individui sani che però percepiscono un affaticamento maggiore del normale, sono state Mirta Fiorio e Angela Marotta del Dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento dell’università scaligera.
Il cervello e la percezione dello sforzo
In pratica, quando vogliamo compiere un gesto, il cervello prevede le sensazioni che proverà affrontandolo e ne regola l’intensità percepita. Ma nei pazienti con stanchezza patologica, le sensazioni motorie vengono sentite in modo più forte: il cervello commette errori di previsione, attribuendo un livello di sforzo maggiore, e ciò fa ritenere le azioni compiute più faticose del dovuto.
I mitocondri e l’energia mentale
Le teorie che individuano nel sistema nervoso il responsabile della stanchezza cronica non iniziano però con questa ricerca. Si sapeva già che tra i colpevoli ci sono anche i mitocondri, le centrali energetiche cellulari che producono adenosina trifosfato, la “moneta chimica” che alimenta ogni attività neurologica.
Il cervello non usa tutta l’energia disponibile alla cieca: la gestisce con parsimonia e, attraverso segnali ormonali e nervosi, decide quanto carburante concederci e quanto trattenere in riserva. Ma la nostra vita stressante e iperconnessa lo mette a dura prova, fino a farlo andare in tilt.
La riserva evolutiva del cervello
«Il cervello mantiene sempre una riserva sostanziale per le emergenze: si tratta di un retaggio evolutivo» spiega Stefania Paola Corti, neurologa dell’Università degli Studi di Milano. «Paradossalmente questo meccanismo si attiva oggi per “minacce” come scadenze lavorative o notifiche digitali».
Queste ultime attivano ripetutamente il sistema di ricompensa dopaminergico e l’asse dello stress, con la conseguenza che ogni interruzione richiede minuti per recuperare la concentrazione profonda.
Digital detox e postura
Tutto questo contribuisce alla stanchezza mentale, che poi diventa fisica. «Sarebbe importante concedersi periodi di digital detox» continua Corti. «Perché sembrano ridurre il cortisolo, migliorare la qualità del sonno e ripristinare la capacità attentiva».
Ma non sono solo le notifiche digitali a spossarci: anche la postura e le lunghe ore seduti al lavoro contribuiscono. «Quando la postura è scorretta o i muscoli cronicamente tesi, i propriocettori inviano segnali di allarme costanti. Il sistema nervoso li interpreta come indicatori di fatica fisica, anche da fermi».
Questa “fatica propriocettiva” attiva aree cerebrali associate allo sforzo, creando un “rumore propriocettivo” che il cervello traduce in stanchezza.
Una fatica globale e condivisa
Non abbiamo molte speranze di evitarla: e se anche noi puntiamo sulle vacanze di Natale, sperando di riposare, sappiamo che non accadrà. Negli Stati Uniti, un americano su tre si sveglia esausto; a mezzogiorno il lavoratore medio è già senza energie. Il costo della bassa produttività supera i 100 miliardi di dollari l’anno.
La diagnosi della stanchezza
Non tutta la stanchezza è innocua. Capirne le cause — mitocondri, cortocircuiti cerebrali, propriocezione — è fondamentale. «La spossatezza è il sintomo più comune e meno specifico» ricorda Nicola Montano del Policlinico di Milano. «Può significare tutto o nulla: da una dormita di scarsa qualità a una depressione, da una malattia cronica a un’infezione».
La chiave è nei segnali: la stanchezza “diversa dal solito”, mai provata prima, o associata a dolori, palpitazioni, ansia. In questi casi bisogna approfondire. Sempre più studi confermano il ruolo dell’infiammazione cronica di basso grado, fattore di rischio per molte patologie.
La fatica come specchio del tempo
Questi processi infiammatori possono drenare energia, alimentati da un’attivazione cronica del sistema nervoso simpatico. Serve un percorso diagnostico ragionato, basato su anamnesi ed esame obiettivo, che spiegano la diagnosi nel 70% dei casi. Fare esami a tappeto resta un errore frequente.
Recuperare davvero durante le vacanze
Per attenuare la stanchezza occorre impegno anche in vacanza. Studi pubblicati su The Journal of Occupational Health Psychology indicano che i benefici delle ferie svaniscono presto se non si praticano attività di vero recupero: distacco psicologico, movimento fisico, relazioni sociali positive.
Viviamo stanchi per difenderci
La grande stanchezza non è un incidente del nostro tempo, ma il suo specchio più fedele: un cervello in allarme, un corpo costantemente seduto, un’umanità iperconnessa che consuma energia come se fosse infinita.
Solo che non lo è. Se un tempo le risorse servivano a scappare dai predatori, oggi ci servono per sopravvivere a scadenze, like e notifiche. Ma i neuroni non distinguono: viviamo stanchi per difenderci da un pericolo che non esiste più.