La fragilità ci rende più forti: Franco Arminio, la grazia e la nostalgia di Dio
- Postato il 21 dicembre 2025
- Di Panorama
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Cercare la grazia nella fragilità dovrebbe essere la quotidiana opera di ciascuno. Un costante lavoro di «trasformazione di una condizione difficile in qualcosa che ci possa dare una visione del mondo, che ci faccia guadagnare qualcosa dalla perdita. In fondo», sospira Franco Arminio, «Gesù Cristo questo ci ha insegnato». La grazia della fragilità è il nuovo libro (in prosa) di questo strano autore che vive appartato, che si presenta come «paesologo» nel senso che studia e ama e racconta i piccoli paesi dell’Italia trascurata. Arminio sta in disparte anche lui, come un paesotto dell’Appennino, e forse anche per questo sa scavare nell’anima del lettore. Lo invidiano, lo criticano anche. La sua colpa è di portare gente in libreria a comprare – cosa inaudita – libri di poesia. E adesso si è pure messo in testa di parlare di spirito, di fede e di preghiera, e di scomodare addirittura Gesù Cristo.
Un autore fuori asse nel nostro tempo
Che strano sentirne il nome sulle labbra di un autore di successo. Ma Arminio è strano, appunto. Ha scritto pure un libro con un sacerdote praticante la meditazione cristiana, Guidalberto Bormolini. Si intitola Accorgersi di essere vivi, un inno alla vita che stiamo perdendo. Perché prima di tutto dovremmo accorgerci che non stiamo vivendo davvero, che qualcosa ci manca: non riconoscere la nostra fragilità ci rende ancora più fragili.
Fragilità e orizzonte post cristiano
Arminio ripete che Cristo ha insegnato la grazia della fragilità ma poi aggiunge: «Il problema è che oggi Gesù Cristo è una figura che non dice niente quasi a nessuno, soprattutto alle giovani generazioni, perché sono cresciute in un orizzonte post cristiano, questa è la verità. Per cui quest’idea di trasformare la fragilità in grazia – che è secondo me profondamente cristiana – a noi sfugge. Il titolo del mio libro, dunque, è apparentemente assurdo, perché se stiamo all’approccio razionale, illuministico, la fragilità è qualcosa da evitare, è una disgrazia. Invece nell’approccio appunto cristiano la povertà è la base per la ricchezza, la fragilità, è la strada per arrivare in paradiso. Ma in questo momento storico quel titolo resta un po’ assurdo».
Trauma esibito e mercato della fragilità
A dirla tutta di fragilità oggi si parla molto, ma è come se fosse una fragilità esibita, ostentata. Va di moda il trauma e la vittima è il nuovo eroe. I vip fanno la corsa a raccontare delle proprie malattie e ferite. Siamo pieni di minoranze traumatizzate che si fanno concorrenza nel mercato del trauma. Arminio sorride quasi. «I neuroscienziati ci ricordano che se tu pratichi l’amarezza diventi l’amarezza, se una persona continuamente parla dei suoi problemi quello diventa il problema. Quando dico che bisogna rivelare le proprie ferite, dico anche che questo va bene solo se sappiamo rivelare anche le nostre grazie. Nel caso dei conduttori televisivi, di questi personaggi qui, è chiaro che c’è un uso mercantile della fragilità. E poi una cosa è il trauma e una cosa è il capriccio».
Federare le ferite
La proposta di Arminio è in fondo quella di denudarsi sul serio, di mostrare le proprie ferite vere e di riconoscersi in quelle degli altri. Lui lo chiama «federare le ferite». «Io parlo di andare all’osso», insiste. «Che poi qual è la ferita di fondo? È il fatto che siamo soli davanti al mistero della morte, e ognuno ci fa i conti in qualche modo, ma questa è la ferita originaria. Quella a cui gli esseri umani devono rispondere collettivamente. Federare le ferite non significa federare i capricci o gli pseudotraumi. Quelli servono solo per attirare l’attenzione, è un’altra veste del narcisismo».
La croce, il digitale e l’ansia del presente
Di sicuro nel cristianesimo c’è la trasformazione della fragilità in grazia, c’è anche però il confronto con la croce, cioè la morte, il dolore, la sofferenza, la limitatezza umana. Un confronto che va condotto senza farsene schiacciare. Ed è questo che oggi sembra mancare: abituati al tutto-e-subito del digitale, di fronte alle asperità della vita ci facciamo schiacciare. È l’era del narcisismo ma anche dell’ansia e della depressione.
Solitudine e fine della comunità
Qui Arminio sospira. «Io non è che conosco bene come va il mondo… Ho questo sospetto: siamo in una società post cristiana, dicevo prima, no? Cioè la religione non c’è più o comunque se c’è una religione è quella del denaro. Questo ha delle conseguenze non piccole su ognuno di noi. Ti svegli la mattina e sei sostanzialmente solo, ma non sei solo perché sei extracomunitario, sei anziano o sei un adolescente problematico: sei solo anche se sei giornalista, se sei poeta, se sei qualsiasi cosa. Questa ferita, questa lacerazione, il pensiero della morte, in qualche modo veniva naturalmente attutita quando eravamo in un mondo in cui esisteva la comunità. Oggi invece questa lacerazione è violenta. Ti dico faccio carriera, faccio i soldi, ma in realtà sposti semplicemente l’orizzonte, e la lacerazione te la ritrovi lì. La lasci alle nove del mattino, la ritrovi a mezzanotte quando vai a letto. Ti puoi distrarre, ti puoi riempire di merci, di relazioni, di successi, ma poi la ferita ti raggiunge. In un mondo post cristiano in cui non c’è legame tra gli individui non abbiamo più dei riti che ci tengano insieme. In un convento, per dire, c’è una architettura della giornata che non è più presente nel nostro mondo, dove ognuno si sveglia e si costruisce un percorso da sbandato. Noi siamo tutti degli sbandati, non abbiamo delle traiettorie definite. In un tempo lontano, la gente si svegliava la mattina e il grosso della giornata era già costruito, questo dava meno ansia, perché si sapeva cosa fare».
Nostalgia di Dio e surrogati della fede
È amaro ma vero. Un tempo si aveva un posto nel mondo, un posto più chiaro in un orizzonte più definito. «Era una società che poteva avere delle cupezze, delle chiusure, però noi stiamo sottovalutando il danno dell’assenza di Dio. Io insisto su questo elemento, il libro insiste su questo. C’è una nostalgia di Dio, io almeno sento questo. Vorrei tornare a Dio, ma vorrei tornarci insieme agli altri, in un ritorno collettivo. Se noi torniamo a credere a qualcosa, secondo me medichiamo la ferita di cui parlavo, altrimenti questa ferita ci squarcia, ci devasta. Questa è la mia sensazione».
La poesia come ultimo rifugio
Ed è una sensazione condivisa, in realtà, anche se non ce ne rendiamo conto fino in fondo. Ovunque fioriscono surrogati della fede. La tecnologia si pone come grande religione nel nostro tempo. L’ecologismo è divenuto un culto apocalittico. Persino sulle questioni alimentari ci si divide in culti e in sette, per non parlare della politica. «Ma queste sono tutte cose che ci danno solitudine. La politica oggi è un luogo di solitudine: puoi anche votare a destra o a sinistra ma che alimento ti dà quell’appartenenza? Nessuno, perché non puoi essere di destra solo perché ti fanno schifo quelli di sinistra o viceversa. Ha senso essere di destra o di sinistra se questa cosa infiamma la tua vita, la riempie di senso. Lo stesso vale per l’ecologismo. Se è semplicemente un modo per sembrare dalla parte del giusto non serve a niente. Ci vuole una verità profonda che deve alimentare la tua giornata. Ma queste sono tutte verità superficiali. Io credo di aver trovato nella scrittura, almeno lì, una base vera. Io quando tutto crolla so che la poesia mi soccorre. Faccio ricorso a quella sorta di sorella, sorella fedelissima. Ti può lasciare una donna, ti può lasciare tuo figlio, ti può lasciare il partito. Però la poesia, almeno questa è la mia grande illusione, la poesia non mi lascia», conclude Arminio: «Noi tutti abbiamo bisogno di qualcosa, di una madre. Cioè non possiamo vivere in un mondo in cui non abbiamo qualcuno che ci protegga profondamente come ci protegge nostra madre. Abbiamo bisogno di essere amati e di amare. Ma questo è un mondo che vuole fare a meno delle cose fondamentali ed è inutile cercare sostituti di Dio. Non si può sostituire così alla leggera».