“La dipendenza affettiva è una droga, mai accettare incontri ‘chiarificativi’ da soli. Tre consigli per non cadere nella trappola”: parla Daniel Lumera

  • Postato il 17 ottobre 2025
  • Salute
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Pamela Genini aveva 29 anni, lavorava come modella e sognava come tante una vita libera e “normale”. È morta invece per mano di chi diceva di amarla. Gianluca Soncin si accanisce su di lei con 24 coltellate fino a ucciderla. Una morte praticamente già annunciata dalla minaccia di tempo prima di Soncin (“Se mi lasci ti ammazzo!”, le avrebbe detto, secondo quanto riportato dalle cronache). Un’altra storia di femminicidio che scuote le coscienze, ma che non può essere ridotta a una tragica cronaca nera: perché dietro ogni gesto estremo si nasconde un intreccio di dipendenze emotive, paura, controllo, bisogno di potere e vuoti affettivi che si alimentano a vicenda e da cui la vittima non riesce a uscire anche volendo o tentando di farlo.

È l’ennesima relazione tossica, che evolve fino alla violenza, in questo caso estrema. Ma come riconoscerla e interromperla prima che sia troppo tardi? Ne abbiamo parlato con Daniel Lumera, esperto e docente a livello internazionale nell’area del benessere e della meditazione e di dinamiche relazionali, autore dell’ultimo libro Ti lascio andare. Come alleggerirsi da pensieri, ricordi e altri pesi invisibili per fare spazio alla vita (Mondadori), che affronta anche questi temi particolarmente delicati.

“Il primo segnale è il possesso”

Lumera, quando è che si forma una relazione tossica? “Ci sono sintomi molto chiari”, spiega l’esperto -. Il primo è il possesso. Quando l’altra persona diventa un pensiero costante, un’ossessione che invade la mente e il corpo, siamo già in un territorio pericoloso. A questo si aggiungono conflitto e competizione cronica: la relazione si trasforma in una lotta continua, dove l’amore diventa un campo di battaglia per il potere o la supremazia. Infine, il terzo elemento è la mancanza di fiducia. Quando il legame si fonda sul sospetto, sul controllo o sulla paura dell’abbandono, la tossicità si è già radicata”. A quel punto, continua Lumera, è necessario chiedere aiuto. “Ma non sempre è facile. Bisogna imparare a farlo. Il primo passo è parlarne con i familiari più vicini, poi con gli amici, e infine con figure professionali – psicologi, terapeuti, consulenti – che possano accompagnare in un percorso di uscita. E questo vale sia per la vittima che per il carnefice. Entrambi hanno bisogno di riconoscere la propria sofferenza e di chiedere sostegno”.

“Viviamo in una società che educa al possesso”

Secondo Lumera, alla radice di molte relazioni distruttive c’è una distorsione culturale profonda: “Siamo cresciuti in una società che ci educa al possesso, non alla consapevolezza. Ci insegnano che l’altro ci ‘appartiene’, che l’amore è controllo, che l’abbandono è fallimento. Così l’altra persona diventa un’estensione del nostro ego, un oggetto che serve a colmare i nostri vuoti di sicurezza, accettazione o amore. Quando questi bisogni vengono minacciati, si scatena la paura del vuoto, e il dolore del rifiuto può trasformarsi in rabbia o violenza”. È in quel momento, spiega il nostro esperto, che “il carnefice smette di vedere l’altro come una persona e lo percepisce solo come un simbolo del proprio fallimento. In casi estremi, uccidere l’altro significa, paradossalmente, distruggere quella parte di sé che non si riesce ad accettare. È una dinamica terribile, ma nasce da un’assenza di educazione alla consapevolezza e alla gestione delle emozioni”.

“La dipendenza affettiva è una droga”

Un altro meccanismo potente è quello dopaminergico, simile a quello delle dipendenze dalle droghe. “Nelle relazioni tossiche si alternano fasi di tensione, violenza o distanza, e poi momenti di intensa riconciliazione, intimità o passione. Questa oscillazione continua di punizione e ricompensa attiva lo stesso circuito cerebrale della ludopatia o della dipendenza da sostanze. È una trappola neurochimica che lega le persone in modo quasi irresistibile: ogni volta che il carnefice ‘torna buono’, la vittima riceve una scarica di dopamina, e così il ciclo ricomincia”. Per questo, sottolinea Lumera, “uscirne è difficilissimo. Non basta la forza di volontà. Serve un aiuto esterno, e servono reti di protezione multiple, quelli che io chiamo ‘salvagenti’: la famiglia, gli amici, le istituzioni, le professioni di aiuto. Bisogna parlarne, segnalare, non restare soli”.

“Mai accettare incontri da soli”

Molti femminicidi avvengono dopo una separazione o in occasione di un ‘chiarimento’: “Sono momenti ad altissimo rischio”, avverte Lumera. “Quando il carnefice sente di perdere il controllo, può agire in modo imprevedibile. Per questo è fondamentale che ogni incontro avvenga in presenza di una terza persona, oppure mediato da un canale digitale: una videochiamata, una registrazione, un luogo pubblico. L’altro deve capire che non sei solo, che qualcuno sa e che può intervenire. È un deterrente potente”.

“Serve un’educazione alla consapevolezza”

Punizioni più dure per i carnefici, spiega Lumera, non rappresentano una soluzione reale al problema. “L’aumento delle pene non è un deterrente efficace. Bisogna intervenire prima, attraverso un’educazione alla consapevolezza emotiva e una profonda revisione del nostro sistema educativo da applicare quinsi anche in carcere. Bisogna insegnare ai bambini a riconoscere le proprie emozioni, a gestirle, a non confondere il bisogno con l’amore. Questo vale per i futuri carnefici e per le vittime”.

“Tre consigli per non cadere nella trappola”

In chiusura, Lumera indica tre parole chiave: consapevolezza, aiuto e guarigione emotiva. Questo significa che “Bisogna imparare a conoscersi, ad auto-osservarsi, a chiedere aiuto senza vergogna. E lavorare sulle proprie ferite emotive: il rapporto col padre, con la madre, con l’abbandono. Anche la meditazione è un aiuto potente: calma la mente, riduce la reattività e interrompe il meccanismo impulsivo che spesso porta al gesto estremo. Quando impari a stare nel vuoto senza fuggirlo, smetti di distruggere te stesso e gli altri”.

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