La crisi nascosta del Dragone: la Cina oscura i dati economici

  • Postato il 25 maggio 2025
  • Di Panorama
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Possiamo fidarci dei dati economici forniti dal governo cinese? La risposta è «decisamente no». Soprattutto oggi, con i dazi di Trump che minacciano di sconvolgere l’ordine del commercio mondiale, e con i venti di guerra che minano la fiducia dei consumatori in quasi ogni quadrante geopolitico. Chi segue l’economia del Dragone sa che, stanti le grandi performance dell’ultimo decennio che hanno elevato la Repubblica popolare al rango di superpotenza, Pechino oggi registra una preoccupante frenata del Pil, dovuta (anche ma non solo) a un numero impressionante di casi di fallimento aziendale e relativa impennata del tasso di disoccupazione: sono circa 30 mila i procedimenti trattati dai tribunali cinesi nel solo 2024 (il triplo rispetto ai 10.132 del 2020, all’epoca della pandemia); mentre la disoccupazione si attesta al 5,5 per cento, ma sale al 16 per cento nel settore giovanile (numeri peraltro non lontani dai dati italiani, con un tasso del 6,3 per cento, giovanile al 18 per cento).

Buona parte dei fallimenti cinesi riguarda il settore immobiliare: ben 101 imprese hanno dichiarato bancarotta nella prima metà dell’anno. Un calo vertiginoso, però in parte atteso: da quando è scoppiata la bolla, colossi come Evergrande Group, Zhongzhi Enterprise Group e Yuzhou Group sono letteralmente colati a picco, trascinando con sé le Borse asiatiche e virando in negativo bilanci e prodotto interno lordo. Pil che, tuttavia, si mantiene – secondo molti, artificialmente – al 5 per cento di crescita. Una cifra indicata (pretesa) dallo stesso presidente-segretario Xi Jinping, che lo aveva annunciato già nel suo discorso di Capodanno. Ma, considerato che tra il 2000 e il 2019 l’economia cinese è cresciuta in media del 9 per cento mentre nel periodo 2020-2024 è stata del 4,8 per cento, la flessione è netta.
C’è di più: il World Economic Outlook di aprile del Fondo monetario internazionale, prevede per il bienno 2025-2026 una crescita ancora inferiore al 4 per cento, in diminuzione rispetto a quanto previsto a gennaio. Considerando poi le passività dei governi regionali, a pesare sul futuro economico cinese è anche il rapporto debito/Pil che quest’anno raggiungerà il 129 per cento e salirà al 148,2 per cento nel 2029 (quello italiano è al 135,5 per cento).

Inoltre, la Cina vive una fase critica anche nel comparto bancario, con particolare pressione sugli istituti regionali e locali. Lo scorso giugno, in appena una settimana 40 banche sono state «cancellate» perché inglobate da entità di maggiori dimensioni, di cui ben 36 confluite nella Liaoning Rural Commercial Bank, istituto creato ad hoc per gestire realtà finanziarie in difficoltà. Una ristrutturazione che è la quintessenza delle proverbiali «scatole cinesi». Non solo: la debolezza strutturale del mondo creditizio del Paese riguarderebbe in totale 3.800 istituti locali, che nel loro insieme gestiscono fondi per un totale di circa 55 trilioni di yuan (equivalenti a 7,5 trilioni di dollari), cioè circa il 13 per cento dell’intero apparato bancario.

Per queste ragioni, Pechino ha dovuto correre ai ripari. Come? In perfetto stile da regime: non sanando i vari settori in sofferenza, ma più semplicemente stringendo il controllo sull’informazione per censurare situazioni che potrebbero rivelare un quadro ancora peggiore di quello sin qui emerso. Fino a poco tempo fa, infatti, anche nella riservatissima Cina un’ampia gamma di dati ufficiali era comunque liberamente accessibile: statistiche su vendite di terreni, investimenti esteri, tassi di disoccupazione, eccetera. Ora, però, molte di queste informazioni sono scomparse. Sono stati rimossi anche dati apparentemente innocui, come quelli sulle cremazioni o sulla produzione di salsa di soia. Persino l’indice di fiducia delle imprese è sparito dai radar.
Se all’inizio della tempesta legata alla bolla immobiliare l’Ufficio nazionale di statistica aveva subito interrotto la diffusione dati relativi alla disoccupazione, oggi è direttamente la censura di Stato a impedire a media e addetti ai lavori di poter accedere a qualsiasi dato macro e micro economico. Se i dubbi sull’affidabilità delle statistiche ufficiali non rappresentano una novità per gli analisti – e di conseguenza è sempre un compito arduo valutare con precisione la crescita della Cina – oggi ci si è spinti oltre.

Xi Jinping stesso ha ordinato di oscurare la realtà economica. In breve, le autorità cinesi hanno interrotto del tutto la pubblicazione di centinaia di dati economici e sociali fondamentali per analisti, investitori e ricercatori. Nella maggior parte dei casi, la decisione è avvenuta senza alcuna spiegazione. Un blackout informativo, dunque, che si è verificato esattamente nel momento in cui era ormai diventato impossibile nascondere il crollo verticale del comparto immobiliare e una serie di altre fragilità strutturali. Già nel 2007 l’allora primo ministro Li Keqiang in una conversazione riservata con l’ambasciatore degli Stati Uniti riportata in un cablogramma diplomatico trapelato – aveva ammesso che i dati sul Pil della provincia da lui amministrata erano «artificiali», dunque inaffidabili. Li Keqiang suggeriva di fare affidamento su parametri più concreti, come il consumo di energia elettrica, il traffico ferroviario di merci e il volume dei nuovi prestiti bancari, definendo i numeri ufficiali del Pil «indicativi».

Se dunque non è possibile riferirsi alla Cina come a un player trasparente o quantomeno affidabile, non si può neanche valutare l’effetto – potenziale o reale – dei dazi di Trump, poiché rispetto ai mercati coinvolti non si possono fare proiezioni. Ecco anche perché, come scrive il Wall Street Journal, per compensare l’opacità delle cifre ufficiali, «gli analisti si affidano sempre più a indicatori alternativi: dagli incassi cinematografici alle immagini satellitari che rilevano la luminosità notturna, dai livelli di attività delle cementerie alla produzione di energia elettrica delle grandi utility. Alcuni ricorrono persino ai dati di geolocalizzazione di app private, come quelle del colosso tecnologico Baidu, per tracciare indirettamente il reale andamento economico».

Pechino ha grande esperienza nell’occultare la verità: la legge cinese sulla sicurezza dei dati, varata nel 2021, impone che informazioni sensibili – come registri societari o immagini satellitari – siano consultabili solo dall’interno della Repubblica popolare. È così che Wind Information, tra i principali provider di dati finanziari, ha iniziato a restringere l’accesso agli utenti esteri, limitando anche dati su vendite online e aste immobiliari. L’economista di una banca straniera con sede a Hong Kong ha raccontato al WSJ di dover «viaggiare ogni fine settimana a Shenzhen solo per scaricare i dati necessari al mio lavoro».

Nel frattempo, continuano a sparire altri numeri fondamentali: dai saldi debitori delle aziende autostradali al numero di nuovi investitori in Borsa. Dopo l’abbandono della oscura strategia «zero Covid» a fine 2022, Pechino ha dunque proseguito sul sentiero della censura totale, non aggiornando più molte delle voci e dei parametri su cui ci si basa per tracciare l’economia di uno Stato (la crisi demografica è, in questo senso, un ulteriore terreno di opacità). Proseguendo di questo passo, sarà impossibile dire se la Cina sia ancora quel dragone invincibile che tanto spaventa l’Occidente capitalista o piuttosto un panda incapace di correre alla stessa velocità dei suoi competitor.

Autore
Panorama

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