La collaborazione Italia-Cina sulla sicurezza è un rischio. L’opinione di Harth

  • Postato il 16 aprile 2025
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  • Di Formiche
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Apprendiamo dal Tirreno che l’8 gennaio scorso, la Polizia ha arrestato a Prato un cinese di 51 anni accusato di essersi appropriato indebitamente di oltre 185 milioni di euro di fondi pubblici. Il fermo, si legge, “è stato eseguito in esecuzione di un mandato di arresto internazionale diffuso dall’Interpol. La notizia non era stata diffusa e la si è appresa (…) scorrendo il bilancio dell’attività della Questura, nascosta in quattro righe in fondo al capitolo sull’attività della Mobile” In qualche modo, la notifica chiude un cerchio di notizie recenti a conferma di un possibile rafforzamento della cooperazione securitaria tra l’Italia e la Repubblica popolare cinese. Una cooperazione che rischia, una volta in più, di estraniare l’Italia dalla coalizione G7+ intenta a contrastare le interferenze cinesi e la sua repressione transnazionale, nonché di esporla al rischio di dover sborsare un altro risarcimento per ingiusta detenzione a seguito dell’esecuzione di una Red Notice proveniente dalla Cina.

Partiamo da quest’ultimo punto di natura strettamente giudiziaria (o almeno tale dovrebbe essere). Con la sentenza Liu v. Poland del 6 ottobre 2022, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha di fatto proibito qualsiasi estradizione verso la Cina dal momento che “l’utilizzo massiccio di tortura ed altre forme di trattamento disumano nel sistema penitenziario cinese costituisce una situazione generalizzata di violenza tale che l’individuo in questione non deve dimostrare di essere a rischio personale”.

Una sentenza con valenza per tutti i Paesi membri del Consiglio d’Europa, che non mancò di avere un seguito quasi immediato in Italia.

A marzo 2023, fu la prima giurisdizione nazionale ad applicare la sentenza Cedu, ribaltando una decisione favorevole all’estradizione di una donna cinese della Corte di appello di Ancona. Nel riassunto delle motivazioni della sentenza della Sesta Sezione penale della Corte suprema di Cassazione si leggeva che, in tema di estradizione per l’estero, “ove la richiesta sia avanzata dalla Repubblica popolare cinese, sussiste il rischio concreto (…) di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, in quanto plurime fonti internazionali, affidabili, dànno atto di sistematiche violazioni dei diritti umani e del tollerato ricorso a forme di tortura, nonché della sostanziale impossibilità, da parte di istituzioni ed organizzazioni indipendenti, di verificare le effettive condizioni dei soggetti ristretti nei centri di detenzione”. Ma non finì lì. A settembre dell’anno scorso, allo Stato italiano fu imposto di pagare oltre 48.000 euro alla donna, come risarcimento per i 205 giorni di ingiusta detenzione a causa del suo arresto a seguito di una Red Noticedell’Interpol. 

La situazione attuale dell’individuo arrestato ad inizio anno è ancora ignota, ma visti i precedenti giudiziari sorge la domanda cosa l’Italia intenda fare dal momento che le Red Notice prevedono espressamente che gli arresti provvisori devono essere eseguiti in vista di “estradizione, resa o azione legale simile”.

E qui usciamo dall’argomento strettamente giudiziario ed entriamo su quello delle interferenze con due opzioni.

La prima potrebbe consistere in un tentativo della Corte di Cassazione di ribaltare i suoi stessi precedenti. Sarebbe un tentativo simile a quello percepito in altri Paesi Sud-europei con forti legami con la Cina. È dell’8 ottobre scorso l’incontro insolito tra l’ambasciatore cinese Jia Guide e la Prima presidente della Corte Suprema di Cassazione Margherita Cassano, dove i due avrebbero “scambiato opinioni sulle relazioni bilaterali e sulla cooperazione giudiziaria fra i due Paesi”.

In alternativa, la strategia delle autorità italiane potrebbe anche consistere nel convincere il cinese arrestato di arrendersi “di sua volontà” alle autorità cinesi, aggirando così i limiti legali imposti all’estradizione. Non a caso, il metodo ufficiale della “persuasione a tornare” è quello preferito dalle autorità cinesi, rappresentando il 70% circa dei ben oltre 12.000 casi Fox Hunt degli ultimi dieci anni.

L’Italia non sarebbe il primo Paese a rendersi complice di tale metodo, come ha dimostrato ancora l’anno scorso lo scandalo dell’accordo informale con la polizia federale australiana attraverso il quale il ministero della Pubblica sicurezza cinese aggirava il veto governativo (e parlamentare) all’accordo bilaterale di estradizione, per eseguire missioni di “persuasione” sul territorio australiano. Scandalo che fece clamore in Parlamento e portò alla cancellazione immediata dell’accordo informale.  Infatti, in Australia come in altri Paesi alleati, le autorità politiche sono da tempo molto più sensibili sulla questione delle interferenze cinesi, nonché nei legami tra la cooperazione bilaterale e la repressione transnazionale. E questo riguarda in particolar modo la natura dell’Operazione Fox Hunt, istituita nel 2014 come braccio internazionale della campagna interna “anticorruzione”.

Nessuno negherebbe che nella Repubblica popolare cinese ci sia un problema di corruzione. Infatti, come afferma un recente rapporto dell’intelligence americana, si tratta di un problema endemica nel Paese: “La corruzione è una caratteristica endemica e una sfida per la Cina, favorita da un sistema politico con un potere fortemente centralizzato nelle mani del Partito comunista cinese, da una concezione dello stato di diritto incentrata sul Partito comunista cinese, dalla mancanza di controlli indipendenti sui funzionari pubblici e da una trasparenza limitata. […] Tuttavia, la campagna anticorruzione di Xi riflette più profondamente una securitizzazione voluta dal partito, ovvero un attacco all’indisciplina politica e all’impurità ideologica, in particolare ai massimi livelli di governo, nel tentativo di preservare il controllo e la legittimità interna del Partito comunista cinese”.

Una serie crescente di rapporti e valutazioni, nonché atti giudiziari, in Paesi partner attesta la valutazione profondamente negativa dell’Operazione Fox Hunt ed i suoi obiettivi. Come ha dichiarato nel 2022 l’allora direttore dell’Fbi, Christopher Wray, “sempre di più, il governo cinese prende di mira persone all’interno degli Stati Uniti per vendette personali e politiche, minando le libertà che la nostra Costituzione e le nostre leggi promettono. (…) Un esempio eclatante è l’operazione Fox Hunt, che il presidente Xi Jinpingaffermò nel 2014 essere stato creato per ‘sradicare la corruzione’. Ma in realtà prende di mira, cattura e rimpatria ex-cittadini cinesi residenti all’estero che considera una minaccia politica o finanziaria. Negli ultimi otto anni, il governo cinese ha così rimpatriato più di 9.000 persone in tutto il mondo, riportandole in Cina, dove possono essere imprigionate o tenute sotto controllo. Ed uno dei motivi principali per cui è stato così efficace è che, proprio come nel caso dello spionaggio economico, il governo cinese è disposto a ignorare le norme diplomatiche e il diritto internazionale quando si tratta di catturare queste vittime. Innanzitutto, spesso emette delle Red Notice tramite l’Interpol, avvalendosi della comunità internazionale e delle forze dell’ordine altrui per fermare e trattenere le persone in vista dell’estradizione”. Tra il 2022 e 2024, sono almeno tre gli atti d’accusa specificamente legate a operazioni Fox Hunt su suolo statunitense, come si evince dai riassunti di recenti casi in materia di repressione transnazionale della divisione per la sicurezza nazionale del Dipartimento di Giustizia.

Similmente, nel febbraio 2021 David Vigneault, direttore dei servizi di sicurezza canadesi, dichiarò: “Diversi stati stranieri intraprendono azioni ostili che sistematicamente minacciano e intimidiscono delle persone in Canada per incutere timore, mettere a tacere il dissenso e fare pressione sugli oppositori politici. Un esempio notevole è l’operazione globale segreta del governo cinese, nota come Operazione Fox Hunt, che afferma di combattere la corruzione, ma si ritiene sia stata utilizzata anche per prendere di mira e mettere a tacere i dissidenti del regime”. E ancora: “Le persone minacciate spesso non hanno le risorse per difendersi o non sanno di poter denunciare queste attività alle autorità canadesi, comprese noi. Inoltre, queste attività si discostano dalle normali attività diplomatiche perché oltrepassano il limite, tentando di minare i nostri processi democratici o minacciando i nostri cittadini in modo occulto e clandestino”.

Facile immaginare quanto sia ancora più complicato per una persona vittima della repressione transnazionale cinese in Italia denunciare tali attività quando le autorità politiche italiane appaiono maggiormente disposte verso le autorità cinesi coinvolte, nonostante i precedenti giudiziari da un lato e gli avvertimenti alleati dall’altro.

Nonostante anche le dichiarazioni precedenti di esponenti del governo stesso, con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che nel dicembre 2022, in merito alla questione delle famose “stazioni di polizia cinesi” e il legame con i pattugliamenti di polizia congiunta, affermò al Foglio: “E infatti posso dire che quelle forme di collaborazione [con la Cina] non verranno più praticate, né replicate in altre forme. Del resto, questo è un governo che, come alcuni criticamente osservano, si configura come sovranista: potrebbe mai accettare che proprio sul fronte del controllo del territorio ci fossero delle cessioni, sia pur potenziali, di sovranità?”.

Evidentemente, dal potenziale ritorno dei pattugliamenti congiunti alla cooperazione Fox Hunt, qualcosa è cambiato. E occorrerebbe una risposta urgente al perché il governo pare tornare a tutta velocità agli errori commessi da esecutivi precedenti con tanta di cessione di sovranità e ignorando dei rischi per la sicurezza nazionale quando di mezzo vi è la Cina.

Autore
Formiche

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