La catena invisibile delle armi dietro alla proiezione multipolare in Africa

  • Postato il 29 ottobre 2025
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  • Di Formiche
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Che la compravendita di sistemi d’arma e più in generale di servizi di sicurezza rappresenti uno dei grandi canali attraverso cui le grandi potenze del mondo cercano di espandere la propria influenza nel continente africano non è certo una novità. Dalla celeberrima Wagner di Yevgeny Prigozhin (oggi ribrandizzata come Afrika Korps per sottolineare la sua nuova identità di “corpo regolare” istituzionalmente legato all’apparato della Difesa di Mosca), alla Sadat di Ankara, fino alle varie entità legate alla Repubblica Popolare Cinese, le private military companies sono divenute uno degli strumenti favoriti dai vari attori internazionali per rafforzare la propria posizione in Africa; parallelamente a questo fenomeno, anche il rifornimento di armi tanto ad apparati di difesa degli Stati africani quanto a formazioni paramilitari ribelli è stata una delle strade più battute per perorare i propri interessi. Un fenomeno, quest’ultimo, non privo di effetti collaterali più o meno voluti.

Come, ad esempio, lo svilupparsi di una vera e propria supply chain parallela, che accorpa al flusso in entrata di armi un flusso in uscita di denaro riciclato e di risorse minerarie. Alcune indagini giudiziarie condotte nella Repubblica Democratica del Congo hanno infatti portato all’arresto di tre cittadini cinesi responsabili di gestire una sorta di “sistema ombra” stabilito nella regione del Kivu meridionale, dove infiamma il conflitto tra le forze governative e il gruppo ribelle M23, responsabile di condurre attività estrattive illegali di risorse minerarie e riciclaggio di denaro. Queste attività avverrebbero proprio nelle zone controllate dalle milizie ribelli, che secondo quanto documentato detengono ingenti scorte di armamenti cinesi, a riprova di un esistente convergenza tra Pechino e M23.

Una dinamica simile è stata registrata anche in Sudan. Amnesty international ha infatti documentato la presenza sostanziale di armamenti di produzione cinese nel Paese dilaniato dalla guerra civile, nonostante l’esistenza di un embargo imposto dalle Nazioni Unite sull’approvvigionamento di sistemi d’arma al suo interno. Secondo le ricostruzioni, prima di arrivare in Sudan i carichi di armi made-in-China hanno fatto tappa negli Emirati Arabi Uniti, definiti dalla stessa Repubblica Popolare come un vero e proprio polo logistico (soprattutto relativamente alle materie prime), e allo stesso tempo indicati come centro di distribuzione per flussi illeciti diretti verso la Cina.

Pechino non è però l’unica responsabile dei movimenti irregolari di armi nel continente africano, con anche la Turchia, che in Africa è uno dei principali esportatori di armi, che contribuisce al verificarsi di dinamiche lesive in questo senso. Negli ultimi anni Ankara ha infatti ampliato in modo massiccio le sue vendite di armi leggere e droni a governi africani più o meno fragili, senza implementare efficaci sistemi di tracciamento e controllo. Causando così una dispersione del materiale militare attraverso dinamiche di compravendita interna e regionale, saccheggio o cambi di regime. Esemplare in questo senso il caso del Sudan, dove nonostante le sanzioni droni e armi leggere di produzione turca sono stati impiegati da entrambe le fazioni coinvolte (oltre che da altre milizie nelle regioni adiacenti, come ad esempio il Sud Sudan).

Questo mercato irregolare delle armi rappresenta una fonte di instabilità concreta per l’Africa, esasperando situazioni di instabilità preesistenti o addirittura andandone a creare di nuove, in un circolo vizioso difficilmente capace di chiudersi senza un netto intervento esterno. Qualcosa che gli attori che guardano all’Africa (Italia compresa) dovrebbero tenere ben presente.

Autore
Formiche

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