La Carmen di Bizet al Teatro Costanzi di Roma, tra poesia e sortilegio

  • Postato il 25 giugno 2025
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Fino a sabato 28 giugno sarà in scena al Teatro Costanzi di Roma la Carmen di Bizet, con la regia di Fabio Ceresa e la direzione di Omer Meir Wellber.

Come tutte le opere benedette un successo immortale, pietre miliari nell’immaginario collettivo, Carmen è da sempre destinata a una serie di equivoci, che fin dalla sua prima rappresentazione all’Opéra-comique di Parigi del 3 marzo 1875 hanno costellato la sua ricezione nella cultura di massa. Fin dal genere in cui, con accorta dissimulazione, verrà presentata: opéra-comique, appunto, mentre si tratta a tutti gli effetti di una vicenda tragica.

Ancor più contrastante la tradizione critica, su cui peserà, paradossalmente, l’entusiasmo di Friedrich Nietzsche: l’opera, accusata al debutto proprio di “wagnerismo”, verrà utilizzata come vessillo dal tormentato genio nella sua polemica proprio contro il passato mentore. Ne Il Caso Wagner, che sancirà la rottura tra il filosofo e il compositore dopo “il tradimento” del Parsifal, Nietzsche esalterà “la gaiezza non francese o tedesca” dell’opera: “Sopra quest’opera la fatalità sta sospesa; la felicità di essa è corta, fulminea, e non conosce dilazioni”.

Eppure, parliamo dell’opera preferita da Gustav Mahler, il compositore che forse più consapevolmente ha raccolto l’eredità spirituale wagneriana.

Inoltre, la melodia più famosa dell’opera (strutturata in quattro “quadri” e tratta dal romanzo di Prosper Mérimée, su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halevy), ovvero la celeberrima Habanera, L’amour est un oiseau rebelle, è in realtà ripresa dal brano “El Arreglito” di Sebastián Yradier (compositore di un altro brano famosissimo, “La Paloma”).

Ancora una volta, la verità non è ciò che appare, il genio sfugge alle etichette: come scrive il grande Massimo Mila nel sempre prezioso libretto di scena del Teatro dell’Opera di Roma, siamo davanti a un’opera “stregata”, anche per il karma beffardo del compositore, che non vedrà mai il successo dell’opera, morendo prematuramente, straziato da una gelosia simile a quella di Don José per la protagonista.“Quella satanicità di Carmen, che lo scrittore aveva adombrato perfin nel nome (Carmen poesia, incantesimo, formula magica) e che i librettisti avevano dissipato nella loro spensieratezza operistica, Bizet la recuperò nella musica, pagando di persona e soggiacendo al fascino malefico della sua creatura”, scrive da par suo Mila, che, sviluppando una brillante intuizione di Paul Bekker, vede l’opera come un rovesciamento femminile del Don Giovanni mozartiano.

Venendo alla prima del Costanzi, innanzitutto interessante l’idea di recuperare le scene “post-sessantottine” di Guttuso dell’allestimento storico del 1970 (che a un appassionato della nona arte come il sottoscritto hanno ricordato la ligne claire alla Hergé). Ancora una volta mi riferisco alla competenza di Francesco Giudiceandrea, sul sito GB Opera: “Per questa ripresa il Teatro ha compiuto una imponente opera di ricostruzione delle scene andate perdute nei decenni intercorsi curata da Alessandro Nico basandosi sulle foto dell’epoca ed ha catalogato e in gran parte ricreato tutti gli oltre trecento costumi sopravvissuti grazie all’ottimo lavoro di Anna Biagiotti basato sui costumi stessi, sui bozzetti in bianco e nero oggetto di una pubblicazione e sull’unico bozzetto a colori esistente custodito presso la Fondazione Guttuso”.

La direzione di Wellber rivela profonda sensibilità unita a una spiccata personalità in scelte molto ardite, talvolta con spiazzante disinvoltura nelle improvvise accelerazioni (ed erano già stati cassati i recitativi di Guiraud!); sempre applausi per il coro del maestro Ciro Visco; Galle Arquez seducente per il perfetto physique du rôle di ammaliante sensualità, appare forse più belle dame sans merci che inquieta gitana; il Don José di Joshua Guerrero risulta forse un po’timido rispetto alla furia autodistruttiva del personaggio; incantevole Mariangela Sicilia, una Micaela commovente pur nella convenzionalità drammatica del personaggio; e poi, la classe cristallina di Erwin Schrott, toreador Escamillo di raro carisma, in grado con un gesto, un cenno, rapido e autorevole, di elettrizzare la platea.

Ecco, appunto, l’elettricità: il quid forse carente nella regia per il resto corretta e scorrevole di Ceresa, al suo debutto romano, con i movimenti di scena curati da Mattia Agatiello. L’elettricità imprevedibile che è sottesa al magnetismo di Carmen: perché “l’amore è figlio di gitani, non ha mai conosciuto legge alcuna”.

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Il Fatto Quotidiano

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