La bugia come strategia
- Postato il 10 giugno 2025
- Attualità
- Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella
Ci sono verità che fanno giustizia, e altre che la tradiscono. Ci sono parole che aprono sentieri di luce nelle indagini, e altre che li confondono, li sporcano, li rendono impresentabili. Nella storia dei pentiti di mafia, il confine tra collaborazione e manipolazione è stato, più volte, attraversato. Non sempre da ingenui, non sempre da disperati, ma spesso da professionisti dell’inganno. Persone che hanno capito che, nel sistema della giustizia italiana, dire di sapere qualcosa può valere più di non aver fatto nulla. E così, in un meccanismo fragile e potente insieme, sono nate le false collaborazioni. Quelle che non salvano lo Stato. Quelle che lo umiliano.Il caso più clamoroso, il più doloroso, il più emblematico, si chiama Vincenzo Scarantino. Analfabeta funzionale, ladruncolo di borgata, picciotto di basso rango, fu scelto nel 1992 come pentito per risolvere in fretta la strage di via D’Amelio. Quella che uccise Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Una strage che faceva tremare l’Italia intera. E che andava chiusa. Con un processo. Con dei colpevoli. Con una sentenza. Scarantino, messo sotto pressione, manipolato, strattonato psicologicamente, cominciò a parlare. Disse di sapere, disse di aver partecipato, indicò complici, descrisse la scena. Il suo racconto fu accettato. Venne considerato credibile. E su quelle dichiarazioni furono costruiti processi, imputazioni, condanne. Solo molti anni dopo, con l’arrivo di un altro collaboratore – Gaspare Spatuzza – si scoprì che tutto era falso. Che Scarantino non sapeva. Che era stato “guidato” da chi voleva chiudere il caso senza disturbare verità più grandi. Lo stesso Scarantino, un giorno, confessò: “Mi facevano dire le cose. Io le ripetevo. Ma non erano mie.” La giustizia italiana, in quel momento, si trovò di fronte a un abisso. Per anni aveva costruito verità su una bugia. Per anni aveva condannato innocenti. Per anni aveva illuso le famiglie delle vittime che fosse stata fatta chiarezza. Ma quella chiarezza era solo un’illusione. L’inganno di Scarantino – che suo malgrado divenne simbolo – fu anche l’inganno dello Stato a se stesso.Ma non è stato l’unico. Altri collaboratori hanno mentito, aggiunto, distorto, esagerato. Per convenienza, per vendetta, per sfuggire al carcere, o semplicemente per confondere. Alcuni sono stati smascherati. Altri no. Perché la parola di un collaboratore, quando è formalizzata in un verbale, ha un peso processuale enorme. E spesso, se coincide con le aspettative degli inquirenti, diventa inattaccabile. Anche se è fragile. Anche se è sbagliata.Il problema non è solo umano. È sistemico. La legge sui pentiti prevede benefici enormi per chi collabora: riduzioni di pena, protezione, nuova vita. È una moneta forte. E come tutte le monete, può essere falsificata. Quando la parola diventa un valore negoziabile, può nascere la tentazione di usarla come strumento di potere. Un collaboratore sa che, più racconta, più ottiene. E allora racconta. Anche ciò che non sa. Anche ciò che gli viene suggerito. Anche ciò che non è mai accaduto.Questo non significa che ogni pentito sia un bugiardo. Ma significa che, in un sistema che premia la collaborazione, è inevitabile che qualcuno scelga la via della finzione. E se il sistema non ha gli strumenti per verificarla in profondità, il rischio è altissimo. Perché la giustizia non si fonda solo sul punire il colpevole, ma anche – e soprattutto – sul non punire l’innocente.A volte i falsi pentiti hanno colpito per calcolo. Altre volte sono stati usati da apparati che avevano interesse a deviare le indagini. In alcuni casi, le loro bugie hanno retto per anni. Hanno prodotto carcerazioni, processi, infamie. Hanno fatto apparire come giustizia ciò che era solo copertura. Hanno costruito un’immagine della mafia parziale, tagliata su misura per le esigenze del momento. E hanno lasciato macerie: nelle aule giudiziarie, nelle coscienze dei magistrati, nelle vite di chi è stato accusato senza prove reali. Le conseguenze sono devastanti. Sul piano della fiducia pubblica, prima di tutto. Quando un cittadino scopre che un processo si è basato su una testimonianza falsa, si incrina il rapporto con le istituzioni. Si insinua il dubbio: quante altre verità sono state fabbricate? Quanti altri pentiti hanno manipolato il sistema? E se anche i giudici possono essere ingannati, chi tutela davvero la giustizia? Poi c’è l’effetto sulle vittime. Quelle vere. Che si vedono private di una verità autentica. Che vengono illuse, ingannate, poi dimenticate. Perché una sentenza basata su una bugia è una seconda morte. Una ferita che si riapre. Un dolore che non trova pace.Infine, c’è la questione morale. Un falso pentito è, di fatto, un criminale che usa la giustizia per i propri fini. Non collabora. Sfrutta. Non illumina. Occulta. E quando viene scoperto, spesso ha già ottenuto benefici, ha già avuto riduzioni di pena, ha già costruito un’altra vita. Il danno è fatto. La macchina della giustizia non riesce sempre a fare marcia indietro. Le scuse non bastano. Le riparazioni sono impossibili. Serve allora un cambio di paradigma. Non basta più fidarsi della parola. Serve verificarla con rigore, con riscontri, con pazienza. Serve una magistratura che non sia solo affamata di risposte, ma capace di attendere la verità vera. Serve una legge che premi non chi parla di più, ma chi parla con coerenza, con precisione, con credibilità dimostrabile. Serve una cultura giudiziaria che sappia distinguere tra confessione e costruzione. Tra memoria e manipolazione.La storia dei falsi pentiti è una storia che lo Stato non può più permettersi di ripetere. Non solo per evitare l’errore giudiziario. Ma per non trasformare il pentimento in un’arma di distrazione di massa. Per non perdere la battaglia della credibilità. Per non svuotare di senso il sacrificio di chi, davvero, ha collaborato con coraggio, mettendo a rischio la propria vita per liberarsi dal crimine.Perché se tutti i pentiti vengono trattati allo stesso modo, anche quelli che mentono, allora anche la giustizia smette di parlare chiaro. Diventa opaca. Contraddittoria. Debole. E in quella debolezza, il potere mafioso trova spazio. Per continuare a confondere. Per continuare a vivere. Per continuare a ridere, anche da dietro le sbarre.La verità non può essere usata. Va cercata. Protetta. Rispettata. E quando si scopre che è stata manipolata, bisogna avere il coraggio di chiedere scusa. E ricominciare. Perché una bugia in un’aula di giustizia non è solo una menzogna. È un veleno. Che si diffonde lento, ma inesorabile. E che, se non viene fermato, finisce per corrodere tutto. Anche ciò che credevamo saldo. Anche ciò che credevamo giusto.
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