La battaglia di Trump contro la stampa passa dalle aule di tribunale: denuncia un giornale e un sondaggista. E non si tratta del primo caso
- Postato il 19 dicembre 2024
- Mondo
- Di Il Fatto Quotidiano
- 3 Visualizzazioni
Li ha chiamati “enemies of the American people”. Nel 2017, poco dopo l’inizio del suo primo mandato, Donald Trump definì i giornalisti “nemici del popolo americano”. La cosa sembrò allora un episodio della battaglia ingaggiata dal presidente conservatore contro un mondo progressista che aveva mal digerito la sua candidatura. Alcuni fatti di questi giorni cambiano sostanzialmente la prospettiva. Alla vigilia del secondo mandato, Trump identifica la stampa come uno degli obiettivi privilegiati da colpire in quell’azione di retribution, di castigo, minacciata contro gli avversari. La guerra di Trump e del mondo conservatore non si limita però più alle parole. Passa alle aule di giustizia, alle stanze del governo, e rischia di diventare uno dei più inquietanti attacchi alla libertà di stampa nella storia americana.
La causa in Iowa – Una prima notizia importante arriva dall’Iowa, dove Trump ha fatto causa a un quotidiano, il Des Moines Register, e a una sondaggista, J. Ann Selzer. L’accusa riguarda un sondaggio di Selzer che il Des Moines Register pubblicò poco prima delle elezioni del 5 novembre, e che dava Kamala Harris in vantaggio di tre punti su Trump. Il dato, clamoroso per uno Stato solidamente repubblicano come l’Iowa, si rivelò poi errato. Trump vinse facilmente in Iowa. Il Des Moines Register e Ann Selzer riconobbero l’errore, rendendo pubblici i numeri e le analisi che li avevano condotti alla (errata) previsione. Il presidente eletto cita ora in giudizio giornale e sondaggista per “sfacciata interferenza elettorale”. In altre parole, il sondaggio avrebbe cercato di influenzare il voto degli elettori. “Lo devo fare – ha spiegato Trump – bisogna mettere un po’ di ordine nella stampa”.
“Pratiche ingannevoli” – C’è in tutto questo un elemento interessante. Trump non denuncia per diffamazione. Trump denuncia sulla base dell’Iowa Consumer Fraud Act, una legge statale che proibisce pratiche ingannevoli di vendita e pubblicità ai danni del consumatore. La ragione è evidente. Negli Stati Uniti la libertà di stampa è particolarmente tutelata. Esiste una sentenza della Corte Suprema del 1964, “New York Times v. Sullivan”, secondo cui c’è diffamazione di una figura pubblica soltanto nel caso di “actual malice”. Il querelante deve cioè dimostrare che un organo di stampa lo ha diffamato “con malizia”, dando una notizia falsa con l’obiettivo consapevole di danneggiarlo. Si tratta di un intento non facile da dimostrare. Trump e i suoi avvocati aggirano quindi l’ostacolo. Equiparano il lettore al consumatore. Sostengono che l’articolo del Des Moines Register era ingannevole. Denunciano il giornale sulla base delle leggi a difesa del consumatore.
Non è il primo caso – Non si tratta di un episodio isolato. In ottobre gli avvocati di Trump hanno utilizzato le leggi del Texas a protezione del consumatore per citare in giudizio, in un tribunale dello Stato, “60 Minutes”, la storica trasmissione di CBS che avrebbe adottato “pratiche commerciali ingannevoli” nel corso un’intervista a Kamala Harris. Non sfugge la mappa delle cause trumpiane. Iowa e Texas sono due Stati conservatori, dove Trump e i suoi avvocati sperano di trovare giudici particolarmente inclini ad ascoltare le loro ragioni. Non si sa al momento come si concluderanno queste azioni legali, ma non è l’esito la cosa importante. Il vero obiettivo è creare un “clima” di minaccia, di paura. Giornali, Tv, radio, sono avvisati. Un pezzo “sgradito” li può far finire in tribunale. Non con l’accusa di diffamazione, ma aver per tentato di raggirare il “consumatore”.
I 15 milioni da Abc – Di questi giorni è un’altra vicenda significativa. Dopo mesi di battaglia legale Disney, che possiede ABC News, ha acconsentito a pagare a Trump 15 milioni di dollari per chiudere un contenzioso partito quando una delle star di ABC News, George Stephanopoulos, ha detto in diretta che Trump era stato dichiarato “responsabile di stupro” nei confronti della giornalista E. Jean Carroll. In realtà, Trump era stato condannato per “violenza sessuale”. Sentendosi diffamato, il presidente ha portato in tribunale rete e giornalista, che alla fine hanno deciso di pagare in cambio del ritiro della denuncia. Si è molto discusso sulle ragioni della scelta dei dirigenti Disney. In fondo, soprattutto in appello, ABC News avrebbe potuto godere delle protezioni della sentenza della Corte Suprema del 1964. Perché, dunque, si è decisa per l’accordo?
Perché l’accordo – Le ragioni sono sostanzialmente due. La prima. Disney possiede ABC News, ma è soprattutto uno dei grandi imperi dell’entertainment americano. Produce film e show televisivi. Gestisce parchi divertimento. Si rivolge a un pubblico di milioni di americani, a prescindere dai loro orientamenti politici. Dopo una dura battaglia legale con il governatore repubblicano della Florida Ron DeSantis, la sfida in tribunale con un altro repubblicano, per di più presidente degli Stati Uniti, era l’ultima cosa che i dirigenti Disney desiderassero. C’è però un’altra ragione, più sottile e nascosta, che spiega l’accordo e che fanno trapelare dalla sede newyorkese di ABC News. Una causa per diffamazione con Trump sarebbe passata di grado in grado, attraverso i tribunali federali, sino al possibile approdo all’organo giudiziario più alto, la Corte Suprema. Una Corte Suprema come quella attuale, a larga maggioranza conservatrice (tre dei giudici sono stati nominati proprio da Trump), avrebbe probabilmente finito per dare ragione al presidente.
La Corte Suprema – Questo è dunque l’altro fronte che, in un sistema di Common Law come quello statunitense, Trump e i conservatori scelgono. Fare causa per diffamazione può, sulla base della giurisprudenza attuale, portare all’archiviazione delle cause nei tribunali federali. Prima o poi una di queste cause raggiungerà però la Corte Suprema, che avrà modo di metterci mano, indebolendo, forse cancellando, le tutele di cui gode la stampa grazie alla “New York Times v. Sullivan”. È una strategia che ricorda quanto fatto dai nemici dell’aborto. Causa dopo causa, sentenza dopo sentenza, hanno raggiunto la Corte Suprema, che ha alla fine cancellato Roe v. Wade. Andare in tribunale può rivelarsi un rischio mortale per i media americani.
Una causa dopo l’altra – Iowa e ABC News sono solo i casi più eclatanti in un paesaggio politico e mediatico che si fa sempre più burrascoso. Qualche giorno prima delle elezioni di novembre uno degli avvocati di Trump, Edward Andrew Paltzick, ha inviato al New York Times una lettera in cui chiedeva di ritrattare il contenuto di tre articoli “ingannevoli, malevoli, intenzionali, diffamatori, denigratori, distorti, inventati, falsi e fuorvianti”. In caso contrario, affermava Paltzick, “il presidente Trump non avrà altra alternativa che far valere i suoi diritti legali”. Il Times ha risposto che la lettera si fonda sulla “nozione inquietante che chiunque osi scrivere in modo sfavorevole di un candidato alla presidenza sia un sabotatore”. La ritrattazione non c’è stata, la denuncia nemmeno, ma chissà. Altro avvocato, altre minacce, altre possibili cause. Timothy Parlatore, che rappresenta Pete Hegseth, scelto da Trump come segretario alla difesa, ha scritto a New Yorker e Vanity Fair, diffidandoli dal pubblicare articoli che raccontavano dei problemi coniugali e della passione per l’alcool del suo assistito. Dopo un minuzioso controllo delle fonti, gli articoli sono stati pubblicati. Emerge anche, tra i fedelissimi di Trump, Kash Patel, designato a guidare l’Fbi. Nel 2021 Patel ha fondato il Kash Patel Legal Offense Trust, un fondo esplicitamente dedicato a finanziare le cause per diffamazione. Patel è colui che, alcuni mesi prima delle elezioni, ha spiegato di voler usare il suo ruolo in un’eventuale amministrazione Trump “per perseguire la gente dei media che ha mentito ai cittadini americani e aiutato Joe Biden a truccare le elezioni presidenziali”.
Prevedibile che, nel suo nuovo ruolo di direttore dell’Fbi, Patel avrà mano libera nel controllare, indagare, perseguire chi meglio crede – politico, giornalista, semplice cittadino. Comprensibile come, nel mondo dei media, si faccia strada un sentimento acuto di disagio. Il Primo Emendamento non è più così al sicuro. Per la stampa Usa si prepara un inverno lungo e difficile.
L'articolo La battaglia di Trump contro la stampa passa dalle aule di tribunale: denuncia un giornale e un sondaggista. E non si tratta del primo caso proviene da Il Fatto Quotidiano.