Jorge Mario Bergoglio, il gesuita che fu Francesco: storia di un Papa controcorrente | ritratto

  • Postato il 21 aprile 2025
  • Cronaca
  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Ho la sensazione che il mio pontificato sarà breve. Quattro o cinque anni. Non lo so, o due, tre. Ben due sono passati da allora. È come un piccolo vago sentimento”. Lo confidava Papa Francesco in un’intervista all’emittente messicana Televisa nel secondo anniversario della sua elezione, avvenuta il 13 marzo 2013. Alla fine gli anni di pontificato sono stati dodici per un uomo eletto a 76 anni, un anno dopo l’età canonica della pensione per cardinali e vescovi, e morto a 88 anni. Il ciclone Bergoglio, che i suoi fratelli cardinali erano andati a prendere “quasi alla fine del mondo”, come disse presentandosi subito dopo l’Habemus Papam, ha segnato indelebilmente la storia della Chiesa cattolica e quella dell’intero pianeta. Un Pontefice decisamente controcorrente, rivoluzionario, anticonformista, informale e accentratore con cui la bimillenaria istituzione ecclesiale e la storia si dovrà confrontare a lungo.

Un Papa che non scompare con la sua morte e il cui ricordo rimarrà indelebile per sempre. Un vescovo di Roma amato e odiato dentro e fuori la Curia romana, dentro e fuori la stretta geografia cattolica. Molto più amato fuori che dentro il cerchio, a tratti opprimente, dei credenti osservanti. Un Pontefice riformatore con l’ansia di rendere le sue riforme irreversibili, soprattutto quelle economiche e quelle contro la piaga abominevole della pedofilia del clero e la sua pluridecennale insabbiatura da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Ma anche quella della Curia romana che ha impegnato gran parte del suo pontificato e che ha visto la luce con la promulgazione della costituzione apostolica Praedicate Evangelium, avvenuta il 19 marzo 2022, festa del suo amatissimo san Giuseppe e nono anniversario della messa di inizio del suo pontificato.

Gli scritti di Bergoglio – Quattro encicliche, di cui due sociali: Lumen fidei, scritta a quattro mani con il suo diretto predecessore, il Papa emerito Benedetto XVI, con cui ha condiviso larga parte del pontificato, Laudato si’, Fratelli tutti e Dilexit nos. Sette esortazioni apostoliche: Evangelii gaudium, documento programmatico del pontificato, Amoris laetitia, Gaudete et exsultate, Christus vivit, Querida Amazonia, Laudate Deum e C’est la confiance. In dieci concistori ha nominato 163 cardinali, di cui 133 elettori e 30 non elettori, provenienti da 73 nazioni, di cui 23 non avevano mai avuto prima un porporato. Ha canonizzato, tra gli altri, tre suoi predecessori: san Giovanni XXIII, san Paolo VI e san Giovanni Paolo II. E ha beatificato Giovanni Paolo I. Ha indetto due Giubilei: uno straordinario dedicato alla misericordia per celebrare il cinquantesimo anniversario della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, dall’8 dicembre 2015 al 20 novembre 2016, con la Porta Santa della Cattedrale di Bangui aperta dal Papa in anticipo rispetto a quella di San Pietro, il 29 novembre 2015, e uno ordinario, tuttora in corso, dedicato alla speranza, aperto il 24 dicembre 2024, che sarà chiuso dal suo successore, il 6 gennaio 2026. Ben 47 viaggi apostolici, l’ultimo ad Ajaccio, il 15 dicembre 2024, per concludere il convegno sulla religiosità popolare nel Mediterraneo, e 31 visite pastorali in Italia. Sei Sinodi dei vescovi, organismo da lui completamente riformato in nome della collegialità e dell’osmosi perenne tra il centro della Chiesa, ovvero il Vaticano, e le periferie, geografiche ed esistenziali.

Il discorso prima del conclave – Bergoglio ha così tenuto fede al ritratto del successore di Benedetto XVI, il primo Papa a dimettersi nei tempi attuali, che aveva tracciato nell’intervento che tenne nella penultima delle dieci congregazioni generali dei cardinali, elettori e non, che precedettero il conclave, il 9 marzo 2013. Un breve discorso rivelato dal cardinale cubano Jaime Lucas Ortega y Alamino che, dopo l’intervento di Bergoglio, gli si era avvicinato per chiedergli il testo scritto da poter conservare. Quelle parole, in realtà, erano state pronunciate a braccio. Ma l’indomani, Bergoglio consegnò a Ortega l’intervento scritto di suo pugno come lo ricordava. “Si è fatto riferimento – disse il futuro Papa – all’evangelizzazione. È la ragione d’essere della Chiesa. ‘La dolce e confortante gioia di evangelizzare’. È lo stesso Gesù Cristo che, da dentro, ci spinge. Evangelizzare implica zelo apostolico. Evangelizzare presuppone nella Chiesa la ‘parresìa’ di uscire da sé stessa. La Chiesa è chiamata a uscire da sé stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria”.

In quello che, alla luce degli eventi, può essere letto sia come un discorso elettorale che come un manifesto programmatico, Bergoglio aggiunse: “Quando la Chiesa non esce da sé stessa per evangelizzare diviene autoreferenziale e allora si ammala (si pensi alla donna curva su sé stessa del Vangelo). I mali che, nel trascorrere del tempo, affliggono le istituzioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sorta di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse, Gesù dice che lui sta sulla soglia e chiama. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che lui sta fuori dalla porta e bussa per entrare… Però a volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire”. Il futuro Papa, inoltre, precisò che “la Chiesa, quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il ‘mysterium lunae’ e dà luogo a quel male così grave che è la mondanità spirituale (secondo de Lubac, il male peggiore in cui può incorrere la Chiesa): quel vivere per darsi gloria gli uni con gli altri. Semplificando, ci sono due immagini di Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che esce da sé stessa; quella del ‘Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans’ (la Chiesa che religiosamente ascolta e fedelmente proclama la Parola di Dio), o la Chiesa mondana che vive in sé, da sé, per sé. Questo deve illuminare i possibili cambiamenti e riforme da realizzare per la salvezza delle anime. Pensando al prossimo Papa: un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l’adorazione di Gesù Cristo, aiuti la Chiesa a uscire da sé stessa verso le periferie esistenziali, che la aiuti a essere la madre feconda che vive ‘della dolce e confortante gioia dell’evangelizzare’”. Un ritratto decisamente autobiografico.

Perché scelse di chiamarsi Francesco – La fumata bianca annunciò che, con 85 voti, il mondo aveva un nuovo Papa, il primo latinoamericano, il primo argentino, il primo gesuita e il primo che aveva scelto di chiamarsi come il poverello di Assisi. “Alcuni – rivelò pochi giorni dopo Bergoglio ai giornalisti che avevano seguito il conclave – non sapevano perché il vescovo di Roma ha voluto chiamarsi Francesco. Alcuni pensavano a Francesco Saverio, a Francesco di Sales, anche a Francesco d’Assisi. Io vi racconterò la storia. Nell’elezione, io avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il clero, il cardinale Claudio Hummes: un grande amico, un grande amico! Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato eletto il Papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: ‘Non dimenticarti dei poveri!’. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. È per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? È l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero… Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”. Frase apparsa subito controcorrente, insieme alla sua scelta di rinunciare a molti privilegi papali, come l’appartamento pontificio nella terza loggia del Palazzo Apostolico, preferendovi la suite 201 al secondo piano di Casa Santa Marta. Rifiutando anche la residenza estiva dei pontefici, Castel Gandolfo, le vacanze nei mesi più caldi dell’anno, le auto lussuose, la mozzetta e le scarpe rosse, l’anello e la croce pettorale d’oro.

Il ruolo dell’ironia – Un pontificato con l’ironia al primo posto: “Alcuni hanno fatto diverse battute. ‘Ma, tu dovresti chiamarti Adriano, perché Adriano VI è stato il riformatore, bisogna riformare…’. E un altro mi ha detto: ‘No, no: il tuo nome dovrebbe essere Clemente’. ‘Ma perché?’. ‘Clemente XV: così ti vendichi di Clemente XIV che ha soppresso la Compagnia di Gesù!’. Sono battute…”. Quell’ironia che lo ha sempre aiutato a superare le durissime contestazioni interne e che ha consigliato a tutti: “Raccomando – si legge nella sua esortazione apostolica sulla santità, Gaudete et exsultate – di recitare la preghiera attribuita a san Tommaso Moro: ‘Dammi, Signore, una buona digestione, e anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un’anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama ‘io’. Dammi, Signore, il senso dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po’ di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia’”. Una preghiera che il Papa, come ha spesso confidato, ha recitato tutti i giorni per quarant’anni.

Memorabile, anche perché divenuto il leitmotiv della seconda parte del pontificato, il discorso ai giovani durante la Giornata mondiale della gioventù di Lisbona: “Amici, vorrei essere chiaro con voi, che siete allergici alle falsità e alle parole vuote: nella Chiesa c’è spazio per tutti, per tutti! Nessuno è inutile, nessuno è superfluo, c’è spazio per tutti. Così come siamo, tutti. E questo Gesù lo dice chiaramente quando manda gli apostoli a invitare al banchetto di quell’uomo che lo aveva preparato, dice: ‘Andate e portate tutti, giovani e vecchi, sani e malati, giusti e peccatori: tutti, tutti, tutti’. Nella Chiesa c’è posto per tutti. ‘Padre, ma io sono un disgraziato…, sono una disgraziata, c’è posto per me?’. C’è posto per tutti! Tutti insieme, ognuno nella sua lingua, ripeta con me: ‘Tutti, tutti, tutti!’. Non si sente, ancora! ‘Tutti, tutti, tutti!’. E questa è la Chiesa, la madre di tutti. C’è posto per tutti. Il Signore non punta il dito, ma apre le sue braccia”.

Quelle nomine che abbattono la tradizione – Francesco ha sottolineato spesso che “chi rimane caduto è già ‘andato in pensione’ dalla vita, ha chiuso, ha chiuso alla speranza, ha chiuso ai desideri e rimane a terra. E quando vediamo qualcuno, un nostro amico che è caduto, cosa dobbiamo fare? Sollevarlo. Fate caso a quando uno deve sollevare o deve aiutare una persona a sollevarsi, che gesto fa? Lo guarda dall’alto in basso. L’unica occasione, l’unico momento in cui è lecito guardare una persona dall’alto in basso, ed è per aiutarla a rialzarsi”. Così come ha ribadito più volte fin dall’inizio del suo pontificato: “Dio perdona sempre! Non si stanca di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Ma lui non si stanca di perdonare”. Bergoglio ha rotto tanti tabù anche all’interno della Curia romana. Lascia il governo della Chiesa con due donne al vertice delle istituzioni vaticane: suor Simona Brambilla, prefetto del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, e suor Raffaella Petrini, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. Ma anche con due capidicastero laici: Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione, e Maximino Caballero Ledo, prefetto della Segreteria per l’economia.

La tomba, il funerale, la normalità – La tomba è stata preparata da tempo nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore, a due passi dall’icona della Salus populi romani, da lui veneratissima già da cardinale. La andava a pregare ogni volta che era a Roma, a lei ha affidato il pontificato il giorno dopo l’elezione e tutti i viaggi apostolici, recandovi sia prima che dopo l’atterraggio. Nel libro intervista su Benedetto XVI, intitolato Il successore, scritto con il vaticanista di Abc, Javier Martínez-Brocal, Francesco rivelò: “Sono molto devoto a Santa Maria Maggiore, da sempre, anche prima di diventare Papa. È già tutto pronto. Poco oltre la statua di Maria Regina Pacis c’è una porta che conduce in una stanza usata per conservare i candelabri. Quando l’ho vista, ho pensato: ‘Questo è il posto giusto’. È già stata predisposta per la sepoltura, me l’hanno confermato”. Bergoglio, inoltre, spiegò che quella di Benedetto XVI “è stata l’ultima veglia funebre organizzata in quel modo, con il corpo del Papa fuori dalla bara, esposto su un catafalco. Ho parlato con il maestro di cerimonie (l’arcivescovo Ravelli, ndr) e abbiamo eliminato questa e tante altre cose”. E aggiunse: “Sto rivedendo il rito insieme al maestro di cerimonie in modo che i papi siano vegliati e sepolti come ogni altro figlio della Chiesa. Con dignità, come un cristiano qualsiasi, e non sopra dei grossi cuscini. A mio parere, è un rito troppo sovraccarico. Due veglie funebri mi sembrano eccessive: ne basta una, e con il Papa chiuso nella bara, come accade in tutte le famiglie. Ho cambiato varie cose, in linea con la riforma già promossa da Paolo VI e Giovanni Paolo II”. E ancora: “Non ci sarà più la cerimonia di chiusura della bara. Si farà tutto nello stesso momento, come per qualunque cristiano. Nel mio caso, dovranno poi portarmi alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Finito il funerale, voglio essere portato là”.

Il tema della morte – Un tema, quello della morte, che il Papa ha affrontato più volte: “La Madre del Signore e Madre nostra, che ci ha preceduti in Paradiso, ci restituisca la trepidazione dell’attesa perché non è un’attesa anestetizzata, non è un’attesa annoiata, no, è un’attesa con trepidazione: ‘Quando verrà il mio Signore? Quando potrò andare là?’ Un po’ di paura perché questo passaggio non so cosa significa e passare quella porta dà un po’ di paura ma c’è sempre la mano del Signore che ti porta avanti e attraversata la porta c’è la festa. Siamo attenti, voi cari ‘vecchi’ e care ‘vecchiette’, coetanei, siamo attenti, lui ci sta aspettando, soltanto un passaggio e poi la festa”. E concluse: “Gesù se ne è andato per preparare il posto a tutti noi e dopo aver preparato un posto verrà. Non verrà solo alla fine per tutti, verrà ogni volta per ognuno di noi. Verrà a cercarci per portarci da lui. In questo senso la morte è un po’ il passo all’incontro con Gesù che mi sta aspettando per portarmi da lui”.

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