Jonestown, il villaggio dell’orrore che attrae orde di turisti

  • Postato il 24 agosto 2025
  • Di Panorama
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Per il governo della Guyana britannica, in fondo, è sempre stata una questione di soldi. A metà degli anni Settanta era un piccolo Stato inquietato dalle mire espansionistiche del vicino Venezuela, e non vedeva l’ora di accogliere  un bel gruppo di cittadini statunitensi. Tanto più che quegli strambi americani intendevano stabilirsi nella giungla, niente meno. Avrebbero creato una sorta di insediamento missionario: un grande villaggio in una radura circondata dalla vegetazione più fitta e coriacea, e poi dei campi da coltivare, faticosamente strappati al groviglio della foresta. In un colpo solo, quegli yankee avrebbero garantito alla Guyana due successi: ripopolare l’entroterra del Paese e fare da scudo contro i potenziali aggressori confinanti. Dopo tutto nessuno, tanto meno il Venezuela, aveva voglia di trascinare gli Usa in un conflitto.

Quello che i politici della Guyana non sapevano, quando accolsero con inusuale rapidità quei curiosi stranieri, è che le attenzioni dello Zio Sam le avrebbero stuzzicate comunque, e per il più inatteso e spaventoso dei motivi: l’insediamento nella giungla si trasformò in un campo di sterminio, teatro di un mostruoso omicidio-suicidio in cui 909 persone, compresi molti bambini, morirono dopo aver sopportato atroci sofferenze, quasi tutti avvelenati dal cianuro. L’evento è passato alla storia come massacro di Jonestown: il 18 novembre 1978 centinaia di corpi furono ritrovati a terra privi di vita.

Alcuni testimoni che sorvolarono la zona a bordo di un elicottero dissero che dall’alto pareva di vedere coriandoli sparsi nella foresta: in realtà osservano i vestiti multicolore dei cadaveri.

Fu nella speranza di concludere nuovi e buoni affari che la Guyana consentì ai coloni statunitensi di stabilirsi a Jonestown. E con la medesima ambizione da qualche settimana il governo del Paese sudamericano ha consentito alla società Wanderlust Adventures di organizzare il Jonestown Memorial Tour, una visita guidata nei luoghi dell’orrore. I turisti arriveranno in aereo nella capitale della Guyana, Georgetown, e dopo un’ora di viaggio in pulmino giungeranno in quel che rimane della città del massacro.

Ovviamente è facile scandalizzarsi per il cinismo con cui si pensa di trarre profitto dalla sofferenza di centinaia di famiglie e dalla morte violenta di quasi mille persone. Ma ci permettiamo di credere che le visite guidate a Jonestown svolgano persino una funzione positiva. Non solo hanno consentito ai giornali di tutto il mondo di ritornare sulla vicenda, ma offrono ai visitatori uno sguardo approfondito su un abisso umano che è bene conoscere. Anche perché è un abisso dal cui bordo, negli ultimi anni, l’umanità ha deciso di sporgersi con frequenza.

La tragedia di Jonestown svela gli orrori a cui può condurre il messianismo politico e religioso, l’idea che esistano leader o guru in possesso della mappa che conduce al paradiso in terra. Sì certo, la storia di questa cittadina al limitare della giungla le cui strade si sono riempite di sangue è senza dubbio estrema, ma non così eccezionale. In quel luogo si mise in moto – in maniera senz’altro più diabolica – lo stesso meccanismo che negli ultimi anni ha dato vita alla cosiddetta cultura woke.

Per ricostruire che cosa accadde da quelle parti è molto utile la lettura di La strada verso Jonestown, librone true crime del giornalista James Guinn, uscito in Italia non molto tempo fa per le edizioni Nua. Oppure si può guardare su National Geographic il ricco documentario sul massacro uscito pochi mesi fa. Al centro di entrambi vi è la figura di Jim Jones, figlio problematico dello Stato dell’Indiana, dove nacque nel 1931, divenuto prima predicatore e poi assassino di massa.

Jones aveva sempre coltivato grandi ambizioni, sin da ragazzino voleva emergere e si faceva notare dagli altri per l’attenzione fanatica con cui compulsava i testi sacri. In realtà non fu mai davvero cristiano: sfruttò i circuiti delle tante chiese protestanti statunitensi per creare la propria congregazione a partire dagli anni Cinquanta. Si appoggiò a questa o quella realtà religiosa per consolidare il proprio prestigio, e come un abile cercatore di successo si aggrappò alle istituzioni che potevano dargli credito, fama e denaro. Nulla di nuovo: migliaia di predicatori da strapazzo nel corso della Storia hanno agito così. Ma Jones era diverso.

Egli era profondamente progressista, desiderava in fondo una religione che consentisse di realizzare il socialismo in terra, e vestire i panni dell’uomo di fede era per lui più facile che indossare quelli del rivoluzionario. Nel 1955 fondò un piccolo movimento religioso che si appoggiò a varie organizzazioni di fede per crescere, ma la svolta arrivò a metà degli anni Sessanta. Il movimento per i diritti civili stava cambiando in profondità la società americana, stavano emergendo la controcultura e i gruppi di protesta, e il culto di Jones era perfetto per il periodo. Egli era un eroe dell’antirazzismo, insisteva per la parità fra i bianchi e neri e conduceva battaglie anche di grande successo (e meritorie) per abolire le discriminazioni, fu responsabile della commissione per i diritti umani della città di Indianapolis e attivista forsennato.  Proponeva un miscuglio di prediche a sfondo sociale e atteggiamento tipico da revivalista del Sud: guarigioni miracolose, dichiarazioni a effetto, spettacolo più che devozione. Fatto sta che fece presa. Coinvolgeva i neri e insieme il proletariato bianco. Si faceva amare dai politici, dagli intellettuali e dagli attivisti. La celebre militante nera Angela Davis fu sua gradita ospite così come l’attivista Lgtb Harvey Milk. Insomma, Jones era un woke ante litteram, un socialista cristiano nemico della proprietà privata e del sistema. Predicava rinunce e servizio per la comunità, per un certo periodo persino astensione dal sesso.

Ma presto si rivelò per quel che era (e che sono ogni volta questi piccoli messia socialistoidi): un narcisista con manie di controllo, disposto a tutto pur di spingere i suoi fedeli alla sottomissione, spesso anche sessuale. Iniziò facendosi chiamare padre, poi prese ad affermare di essere Cristo reincarnato e Dio in terra. Manipolava e irretiva donne e uomini della sua Chiesa, anche se sua moglie gli fu sempre vicina e fedele, contribuendo al suo successo, si circondava di amanti/factotum. Fu anche arrestato per atti osceni, ma riuscì a insabbiare la faccenda.

«Dopo l’arresto», racconta Jeff Guinn, «Jones iniziò a sottolineare nei suoi sermoni e nelle riunioni della commissione di pianificazione un tema ben preciso: tutti sono omosessuali. In precedenza, l’affermazione era stata fatta di tanto in tanto, ma ora era diventata una costante. Coloro che si impegnano in rapporti eterosessuali stanno compensando i loro reali desideri carnali. Se Jones voleva far abbassare la cresta a qualcuno, lo obbligava ad alzarsi e ammettere la propria omosessualità. Coloro che inizialmente si rifiutavano, venivano picchiati fino a quando non cedevano. Stephan Jones (uno dei figli, ndr) pensava che suo padre “stesse solo cercando di sentirsi a posto con sé stesso […] per affrontare la sua bisessualità, ogni altro ragazzo doveva provare gli stessi sentimenti sessuali”».

Non pago di controllare spiritualmente e talvolta sessualmente i suoi seguaci, Jones a metà degli anni Settanta cominciò a ideare la sua nuova Gerusalemme: Jonestown, la città in cui instaurare il suo regime teocratico/socialista. Nemmeno troppo incredibilmente, trovò centinaia di persone disposte a seguirlo in Guyana e a prestarsi a quello che nel giro di un paio di anni divenne un regime spaventoso in stile Cambogia di Pol Pot. Jonestown era un gulag gestito in Sudamerica da un americano che si proclamava Dio e resse fino a quando un deputato statunitense, Leo Ryan, decise di recarsi sul posto per verificare come fossero trattati i suoi compatrioti lì presenti. Non fu accolto con gioia.

Arrivato quasi a sorpresa con una delegazione di parenti dei fedeli e giornalisti, Ryan prima fu accompagnato in una sorta di visita guidata che definire parziale è un eufemismo, poi – al momento di ripartire – fu attaccato dalle guardie personali di Jones, che uccisero lui e altri cinque. Poco dopo, consapevole di essere arrivato alla fine della sua tragica parabola,  il reverendo Jones spinse i suoi accoliti a bere un drink a base di cianuro e poi si suicidò. Così finiva Jonestown, utopia messianica che portava morte promettendo il paradiso.

Autore
Panorama

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