Italia centro dell’Occidente, per un’Europa che deve costruire una “vision”. Conversazione con Natalizia
- Postato il 18 maggio 2025
- Esteri
- Di Formiche
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Mentre la nuova amministrazione americana ha aperto il mandato con una strategia di ridefinizione delle sue priorità globali, la scelta del Golfo come prima tappa estera del presidente Donald Trump rappresenta un chiaro segnale. Washington dà priorità oggi a un’area considerata pragmaticamente centrale per le sue ambizioni economico-strategiche. Come dichiarato dal negoziatore in-chief Steve Witkoff, il Golfo è stato “altamente sottovalutato”, ma – se unito, ossia se superate le enormi divisioni che ancora traviano la regione dopo decenni – potrebbe diventare più importante di un’Europa descritta come “disfunzionale”. Un linguaggio che riflette non solo uno scarto di percezione, ma un cambio di paradigma: la ricerca americana di partner solidi e reciproci, più che formalmente allineati e alleati, è tornata prioritaria.
In questo contesto, l’Europa rischia di trovarsi ai margini se non saprà ridefinire il proprio ruolo, non tanto nella retorica dei valori condivisi, quanto nella concretezza delle azioni e nella flessibilità delle alleanze. Tuttavia, sarebbe un errore leggere questo scenario solo in termini di declino europeo. Proprio in questi giorni Roma è tornata ad essere un crocevia della diplomazia globale, come lo era stato per le esequie di Papa Francesco – che, sebbene in via eccezionale, avevano rappresentato di fatto il primo viaggio fuori dagli Usa del secondo mandato del presidente Trump, proprio a Roma, proprio in Vaticano, proprio in Europa. Oggi, la presenza del segretario di Stato statunitense, Marco Rubio, del vicepresidente J.D. Vance (protagonista di un incontro riservato con la premier Giorgia Meloni e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen), del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky (ospite di un vertice con gli americani ai a Villa Taverna), e di una delegazione russa, oltre che di altri vari leader europei (tra cui il cancelliere tedesco, Friederich Merz) in occasione della messa d’inizio pontificato di Papa Leone XIV, suggerisce ancora che l’Europa resta insostituibile come piattaforma globale, politica, simbolica e negoziale alla base dell’Occidente. Quello stesso Occidente che è fondamenta dei rapporti transatlantici, ancora cruciali per l’America, perché cortina di protezione dalle attività di attori malevoli – come la Cina o la Russia – passa direttamente da lì, prima ancora che per Medio Oriente o Indo-Pacifico.
Il Vaticano, in particolare, sta riemergendo come luogo di facilitazione politica, anche pratica su dossier come i colloqui di pace sull’Ucraina. Non lo chiamerei “mediatore“, ma “penso che sia un luogo in cui entrambe le parti si sentirebbero a proprio agio […] Quindi parleremo di tutto questo e ovviamente saremo sempre grati al Vaticano per la sua disponibilità a svolgere questo ruolo costruttivo e positivo”, ha detto Rubio. Papa Leone XIV ha dichiarato apertamente di voler fare “ogni sforzo” per fermare la guerra, mentre il cardinale Matteo Maria Zuppi ha ricevuto un sostegno esplicito da parte di Washington per l’opera di mediazione e di scambio umanitario, in particolare per il rientro dei minori ucraini.
Ciò che emerge, dunque, è una duplice traiettoria: da un lato gli Stati Uniti cercano partnership agili e orientate al risultato rapido, come nel caso del Golfo, dall’altro l’Europa può riaffermare la propria centralità secolare (e temporale), ma a patto di saper combinare la forza della sua dimensione politica e simbolica con una maggiore lucidità strategica. E il Vaticano, che ha già intrapreso una forma di dialogo culturale potentissimo tra cattolicesimo e islamismo, tra Europa e mondo arabo (simboleggiato dalle monarchie del Golfo anche in questo caso), è un ulteriore paradigma. Il modello per Bruxelles non è l’emulazione, ma la consapevolizzazione: la capacità del Golfo di agire in modo funzionale agli interessi diretti potrebbe stimolare l’Europa a rinnovare le proprie forme di cooperazione, anche in vista di una possibile rinegoziazione delle relazioni transatlantiche?
Spesso l’Europa si percepisce e si rappresenta come “in declino”, ma è un declino parziale che non deve far dimenticare che sia come blocco che come singoli Paesi, l’Europa pesi ancora sulle dinamiche internazionali, commenta Gabriele Natalizia, professore associato di Relazioni internazionali alla Sapienza, che riflette su Formiche.net come i sistemi multilaterali – dal G7 al G20 – siano di fatto popolati dagli europei, e di come i Paesi del blocco siano in realtà in testa anche alle classifiche di capacità militari. “Ma non dobbiamo dimenticare una serie di riflussi, da quello demografico a quello parziale economico, con l’Europa che non domina più l’economia globale, e anche dal punto di vista militare subiamo gli effetti di quello che ci rimproverano gli Stati Uniti: a volte manchiamo in strumenti di deterrenza e di intervento”.
In questo senso, una nuova cornice economica tra Unione europea e Stati Uniti, capace di affiancare la storica alleanza, potrebbe rappresentare la vera leva per contrastare il rischio di marginalizzazione. La discussione in corso su un rilancio dei rapporti UE-Regno Unito potrebbe essere l’occasione per porre le basi di un accordo transatlantico più ampio, capace di rispondere alla nuova logica geopolitica americana. Se l’Europa è ancora al centro: la sfida è dimostrarlo nei fatti. Dunque, come? “L’Europa deve capire il proprio posto del mondo, e qui ci vuole di avere consapevolezza che il ruolo europeo nel terzo decennio del ventunesimo secolo non è più quello che aveva nel terzo decennio del diciannovesimo secolo: abbiamo un peso, in parte ereditato dal passato, in parte perché lo abbiamo coltivato, ma non siamo più il centro del mondo, non siamo più i custodi di un modello universale”, risponde Natalizia.
Per il professore, occorre ritornare mentalmente al fatto che attorno a noi c’è un sistema di competizione tra potenze, e “i Paesi europei sono adesso delle media potenze che partecipano con difficoltà a questo gioco”. Dunque le chance sono due: “O ti allinei e contribuisci alla posizione del tuo alleato maggiore, sperando che sia inteso gli Stati Uniti e non la Repubblica popolare cinese o la Federazione russa; oppure devi fare strategic-hedging, ossia parlare con tutti in un modo simile a quello che fa l’Arabia Saudita, o la Turchia in qualche modo (pur se dentro l’alveo Nato). Quello che è certo è che non si può pensare di imporsi in questo mondo come potenza normativa”. C’è poi un’altra consapevolezza di cui parla Natalizia: “Si conta più politicamente quanto più sei pesante militarmente, ed essere pesante non significa solo aumentare la spesa, ma soprattutto essere disponibili a utilizzare quello su cui si è speso, per proteggere i propri interessi e aree strategiche o farsi promotori di azioni di stabilizzazione: in un mondo sempre più competitivo e instabile, conta di più chi si dimostra capace di usare anche lo strumento militare, se è necessario”.
Qui il tema è vasto: l’Europa sembra mancare di visione di lunga gittata e interpretazione del presente? “Non è un caso quello che dice Witkoff: alcuni Paesi hanno visione, alcuni lo mettono per iscritto in documenti che chiamano non a caso ‘Vision’. Qual è invece la visione dell’Unione Europea? Quale è il mondo che vorremmo e quali strumenti usiamo per ottenerlo? Diciamo che appare priva di una vera strategia condivisa, che abbia come premessa la duplice consapevolezza che siamo passati in una fase diversa della storia, dove si compete per definire un nuovo ordine internazionale, e che, parimenti, il posto dell’Europa in questo è diverso rispetto al passato”, risponde Natalizia.