“Io, venezuelano, lavoravo da anni in Massachusetts e ora sono recluso in una cella con altri quattro”

  • Postato il 10 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Prima incastrati dagli agenti, poi spediti al centro di detenzione di Burlington e infine nel penitenziario della contea di Plymouth. Nello Stato del Massachusetts l’inferno delle deportazioni è scandito da più fasi da quando il presidente Usa Donald Trump ha dato il via alle deportazioni di oltre 140mila migranti. In elenco l’invocazione dell’Alien enemy act del 1798, la revoca dello Status di protezione temporanea e dell’Humanitarian parole e il divieto di entrata ai cittadini provenienti da dodici Paesi – tra cui Afghanistan, Haiti e Sudan– in un braccio di ferro con giudici e opinione pubblica ora sfociato nelle recenti proteste a Los Angeles, dove il tycoon ha dispiegato 2mila agenti della Guardia nazionale. “Escalation innecessaria e pericolosa”, avverte il Legal defense fund (Lfd), che prende forma “in concomitanza con gli sforzi dell’amministrazione Trump di criminalizzare i migranti, soprattutto neri”.

“Qui veniamo trattati come animali”, racconta Daniele D’Amico, 33enne venezuelano di origini italiane, recluso a Plymouth da oltre quattro mesi e che ha raggiunto telefonicamente ilfattoquotidiano.it. “Siamo più di sessanta: e veniamo messi di cinque in cinque dentro celle di quattro metri quadri, con solo un cesso e un rubinetto da condividere”, continua D’Amico. Il giovane 33enne lavorava e viveva a Massachusetts da almeno quattro anni, e aveva superato la richiesta per la Green Card. “Avrebbero dovuto ascoltarmi. Invece mi hanno fermato di notte, mentre ero in macchina, e sono stato trattenuto dalle 23 alle 8 del giorno successivo”. Da lì è stato spedito al centro di detenzione di Burlington, dove ha trascorso i primi giorni.

Nella gabbia di Burlington – Lì si trovava anche José Cardozo, operaio 27enne di origini ecuadoriane. Non aveva nessun precedente, ma non era in possesso di documenti. “Qui lavoravo installando soffitte, fino a quando un giorno gli agenti dell’Ice mi hanno portato via senza fare alcuna domanda“, racconta lui stesso a ilfattoquotidiano.it, e aggiunge: “a Burlington dormivo per terra, e il cibo era poco e scadente”. Cardozo, anche lui ora a Plymouth, non ha avuto più informazioni sul suo conto, neppure dal proprio legale: “Qui in Usa non mi restano che i vestiti, e tornerei a Quito anche domani”. I detenuti denunciano di subire trattamenti inumani e degradanti. A dirlo senza censure è Mauricio Suarez, cittadino honduregno arrestato dall’Ice nonostante avesse la Social Security, cioè il permesso di lavoro. “Ero chiuso in una gabbia con vetri oscurati”, ha raccontato Suarez, “eravamo ammucchiati in 48 dentro una cella di circa cinque metri quadri”. Suarez dice di essere stato arrestato a tradimento. “Ero andato a prendere mio figlio, che era stato portato in caserma a causa di un diverbio con altri giovani”. Le condizioni inumane del centro di detenzione sono state denunciate anche da Sara Sherman-Stokes, professoressa di diritto e direttrice della “Immigrants’ Rights & Human Trafficking clinic dell’Università di Boston, che alla testata locale Nhpr ha riferito “l’assenza di privacy, letti, cure mediche e cibo a sufficienza” nella struttura. Altri legali sostengono che non ci siano

L’inganno – Nelle ultime settimane i media statunitensi hanno denunciato numerosi casi di fermi di migranti che si erano recati ai tribunali perché convocati dalle autorità giudiziarie. “Non ci sono certezze, neppure dopo aver pagato la cauzione”, sostengono i detenuti, aggiungendo di aver visto “ritornare qui dentro, in carcere, persone che erano state rilasciate dopo aver saldato dai 1.500 ai 9mila dollari”. E aggiungono: “Puoi essere rilasciato, ma subito dopo ti vengono a prendere”. E tra le storie più strazianti c’è quella di Joao Da Silva, un cittadino brasiliano preso mentre era in macchina con la moglie. Lei, cittadina americana, era incinta di due gemelli al momento dell’accaduto. Gli agenti dell’Ice hanno rotto i vetri della vettura per prelevarlo. E volevano portare via anche lei, lasciandola lì solo dopo che ha reso nota la sua identità. Il trauma dell’episodio ha recato particolari complicazioni alla gravidanza.

Senza differenze – Altrettanto drammatica la vicenda di Luciano Decol, 48enne italo-brasiliano, fermato senza patente mentre lavorava a Martha’s Vineyard, nonostante fosse in possesso, anche lui, della Social security. “Lavoravo in una ditta fornitrice di aria condizionata, non avevo mai avuto problemi”. Neanche per lui è valso il legame familiare con moglie e figlia con residenza sul suolo americano. “Sono stato anch’io a Burlington, è l’inferno”, racconta a ilfattoquotidiano.it. I suoi amici hanno organizzato una colletta per sostenere le spese della famiglia, rimasta senza il supporto di Decol. “Ti prendono tutto quello che hai, e rimani senza niente“, confida, “ora ho paura di essere trasferito in un’altra struttura, com’è accaduto ad altri, poco prima di dover comparire dinanzi alla ai giudici”. Per Decol, l’America che conosceva non esiste più. “Trump aveva promesso mano dura verso i criminali, ora invece si scaglia contro le persone perbene“. E ai migranti in arrivo dice: “Non venite qui, se la prendono anche con i turisti”.

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Il Fatto Quotidiano

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