“Io, Robin, l’Africa, matematica e basket”. Intervista a Pippo Ricci
- Postato il 8 marzo 2025
- Di Il Foglio
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“Io, Robin, l’Africa, matematica e basket”. Intervista a Pippo Ricci
Giampaolo Ricci, detto Pippo dagli amici, ma non da mamma e papà (per lei è sempre “pallino”), non è soltanto il capitano dell’Olimpia Milano e l’unico giocatore di basket ad aver vinto gli ultimi quattro scudetti. Dentro Pippo Ricci c’è molto di più. C’è una laurea in matematica, discussa il giorno dopo una partita a Tel Aviv. E c’è pure Amani for Africa, l’organizzazione che ha fatto nascere per stare al fianco di centinaia di bambini e giovani che vivono nelle periferie delle grandi metropoli africane. Tutto nasce dal pallone a spicchi ed ora viene raccontato in “Volevo essere Robin”, il suo libro autobiografico che racconta un viaggio straordinario fatto di sacrifici e impegno perché Pippo è “un ragazzino cicciottello con lo zaino pieno di sogni che ce l’ha fatta”.
Cicciottello è fin gentile per definire un ragazzino di 13 anni che pesa 121 chili. Pippo si vergognava del suo corpo, tanto che da bambino, quando ancora giocava a calcio, scappava a casa dopo gli allenamenti per non farsi vedere sotto la doccia dai suoi compagni. I bambini possono essere cattivissimi, non dobbiamo mai scordarlo. “L’idea di mostrare il mio corpo mi fa provare un sentimento di vergogna che mi disorienta completamente… Sono così deluso da me stesso che vorrei urlare, urlare e urlare. Ma non servirebbe a niente. Allora scelgo un’altra strada. Affrontare il mio riflesso. Guardare ciò che sono diventato”, scrive nel libro ricordando quei giorni.
“Volevo essere Robin” è un po’ il contrario di Lucio Corsi che canta “Volevo essere un duro”. Pippo Ricci non vuole essere un duro, ma è uno dei giocatori più duri della nostra Serie A. E poi è duro con gli avversari, come con se stesso. Sembra più Batman di Robin, anche se da bambino il costume del supereroe più famoso lo indossava il fratello. “Robin però è quello che magari lavora di nascosto, ma lavora da solo, facendo anche il lavoro sporco rispetto a quelli che sono abituati a segnare 30 punti o essere tutti gestori. Io sono partito dal basso e viene fuori un po’ il mio carattere altruista che mi porta a fare qualcosa che gli altri non fanno. Nella mia carriera sono stato capace ad adattarmi all'esigenza di ogni squadra in cui ho giocato, di prendere un rimbalzo in più, una difesa in più e, in caso ce ne fosse bisogno anche una gomitata in più. Ho sempre cercato di essere duro. Non sporco, ma duro. Io dico sempre ai miei compagni: we have to play hard”.
Una delle frasi che scrive nel libro dice: “Se non sono nato per essere un campione, forse lo posso diventare”. Come è facile da dire, più difficile da mettere in pratica perché ci vuole una forza di volontà speciale, quella che da ragazzino, appena andato via da casa per giocare alla Stella Azzurra lo portava a prepararsi un beverone e a chiudersi in camera a studiare per l’esame di maturità, invece di sfondarsi di chiacchiere e videogame con i compagni. ”Sono uno super competitivo, ho questa fame dentro che mi ha portato anche in allenamento a volere voler far bene, voler vincere, perché se perdo in allenamento poi mi arrabbio. E così ero anche nello studio, prima al liceo e poi a matematica”. Lavoro in palestra, lavoro sui libri, poche gioie a tavola dove ancora oggi i compagni raccontano di incredibili mappazzoni di riso, tonno o pollo. “Ma ultimamente sono migliorato, ogni tanto una pizza o una birra me le concedo…”. Il suo mantra è chiaro: “Credo nel lavoro quotidiano e ci credo tantissimo, mi rifugio in quello quando le cose non vanno male e trovo lì le mie soddisfazioni”.
Anche oggi quando si guarda allo specchio rivede quel ragazzino sovrappeso che si vergognava del suo corpo. E pensandoci capisce quanta strada ha fatto. Un percorso che è una lezione di vita: con l’impegno, il lavoro, la volontà, si possono raggiungere i propri sogni. È un po’ questa la lezione contenuta nel libro: “Nello specchio ho visto tantissimi Giampaolo diversi e tantissimi Pippo. Adesso la prima cosa che noto è che sto perdendo un po' i capelli… diciamo che la mia insicurezza a livello fisico c'è sempre e quindi anche adesso mi guardo un po’ di traverso. Non provo mai quel 100 per cento di piacere rivedendomi. Mi porto sempre dietro quel ragazzino un po’ impacciato e un po’ insicuro che forse è anche un po' il mio segreto, nel senso che sono cambiato fisicamente, ma in fondo sono sempre quel bambino che era andato via da Chieti con tante insicurezze, qualche chilo in più e una caviglia appena operata. Pensarci mi fa capire che non si deve mai dare niente per scontato”.
Per scrivere il libro, Pippo si è un po’ spogliato, ha frugato nella sua intimità, nei suoi dolori (l’amico travolto da un furgone, la morte del nonno, la malattia poi superata da mamma), racconta dei pianti liberatori senza vergogna, della solitudine mentre era alla ricerca del giocatore che c’era in lui. Una bella storia di vita oltre che di basket. Tanto lavoro, tanti sacrifici ed un lieto fine con i quattro scudetti di fila (il primo con la Virtus, poi con l’Olimpia), la maglia della Nazionale da protagonista (“la partita contro Portorico ai Mondiali è quella della vita finora”) e l’impegno per l’Africa. Per raccontare Pippo bastano tre parole: aiutare, aiutare, aiutare. Un qualcosa che deve aver ereditato dai suoi genitori che, dopo essersi conosciuto su un campo da basket, sono andati in Tanzania a fare i medici.
Aiuta i suoi compagni, aiuta i bambini in Africa, ha aiutato se stesso a diventare l’uomo che è. “Io dico sempre che non avrei potuto giocare a tennis perché a tennis non c’è nessuno da aiutare, non c'è nessuno a cui dare una pacca o dire una parola di conforto. A me piace dare una mano, piace esser presente”. Il libro si chiude con una frase che ricorda molto quella di Kobe Bryant nel suo addio al basket. “Grazie al basket. Grazie perché anche se ti sei preso tutto, io quando ho in mano un pallone e sento le fossette di cuoio sotto i polpastrelli, sono felice”. Il viaggio è stato davvero clamoroso. Un po’ come questo ragazzo che avrà le orecchie grandi come Pippo, ma ha un cuore d’oro.