Inverno demografico: crollano le nascite nel mondo, l’Italia verso il collasso entro il 2100

  • Postato il 8 giugno 2025
  • Di Panorama
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Chi sarà l’ultimo essere umano sulla Terra? Forse una donna, le femmine vivono più a lungo degli uomini.  E probabilmente di colore, visto che il tasso di natalità più alto è in Africa. Un’anziana che da sola si aggira per una città ormai disabitata: bella immagine per un film o una serie tv.  Ma non è detto che il destino dell’umanità sarà questo. E magari non ci sarà neppure una fine per la nostra specie, capace di adattarsi alle situazioni più difficili. Quello che tuttavia sembra certo è che in futuro saremo di meno, molti di meno. Già, perché dopo esserci assillati per anni con l’incubo della sovrappopolazione, ora ci troviamo ad affrontare un problema del tutto opposto: l’inverno demografico. Facciamo sempre meno figli e ormai molti Paesi avanzati sono condannati a vedere la propria popolazione rattrappirsi. Il motore principale dell’inverno demografico è la persistente diminuzione dei tassi di fecondità totali (Tft), ovvero il numero medio di figli per donna, che scendono costantemente al di sotto del cosiddetto «livello di sostituzione», convenzionalmente fissato a circa 2,1 figli per donna. 

Attualmente due terzi della popolazione mondiale vive in Paesi con tassi di fecondità inferiori al livello di sostituzione. A livello globale il numero di figli per donna è crollato da 4,84 nel 1950 a 2,23 nel 2021, con una proiezione di 1,59 per il 2100. Si stima che in quell’anno solo in sei nazioni le donne avranno in media più di 2,1 figli. Il risultato è che la popolazione mondiale raggiungerà un picco di circa 10,3 miliardi di persone a metà degli anni 2080, per poi stabilizzarsi intorno a 10,2 miliardi nel 2100 e in seguito diminuire. Spetterà in particolare all’Africa il compito di alimentare la popolazione terrestre, in particolare la regione subsahariana, che vanta il tasso di fecondità più alto al mondo.

Il fenomeno del calo demografico è particolarmente acuto in Asia, dove si sta verificando con una velocità impressionante. Giappone e Corea del Sud hanno registrato negli ultimi anni minimi storici nelle nascite. Le previsioni indicano che la popolazione giapponese potrebbe diminuire del 30 per cento entro il 2070, con gli ultra 65enni che rappresenteranno il 40 per cento della nazione. Ma è la Corea del Sud a presentare il quadro più allarmante, con un tasso di fertilità di soli 0,72 figli per donna, il più basso al mondo. Anche la Cina, nonostante l’abbandono della politica del figlio unico, non è immune a questa tendenza: i modelli demografici delle Nazioni Unite mostrano che i cinesi, attualmente a quota 1,4 miliardi, potrebbero scendere a 1,313 miliardi entro il 2050 e sotto gli 800 milioni entro il 2100. Perfino l’India, il Pakistan, il Bangladesh, il Vietnam, l’Iran e la Thailandia sono  testimoni di un marcato inverno demografico. 

Le proiezioni indicano un collasso dei tassi di natalità nell’Asia meridionale, che si allineerebbero rapidamente a quelli dell’Europa occidentale. Negli Stati Uniti la fecondità è scesa a 1,66 figli per donna mentre in Europa numerosi Paesi, incluse la Polonia e la Finlandia, un tempo caratterizzata da alta natalità, stanno sperimentando dinamiche simili. La media nell’Unione è scivolata nel 2023 a 1,38 figli per donna. Le proiezioni della Commissione Europea indicano un declino della popolazione dell’Ue a partire dal 2026, con i Paesi dell’Europa orientale e meridionale che affronteranno le contrazioni più marcate. In Italia l’ultimo rapporto Istat disegna un quadro drammatico: il tasso di fecondità è sceso nel 2024 al minimo storico di 1,18 figli per donna mentre la popolazione si è ridotta a 58,9 milioni di residenti, con previsioni che indicano un possibile calo demografico del 41 per cento entro la fine del secolo. Nel frattempo aumenta la quota di anziani: circa un quarto della popolazione italiana (il 24,7 per cento al 1° gennaio 2025) ha almeno 65 anni. Tra questi, 4,6 milioni sono persone di 80 anni e più. 

Al di fuori dalle grandi metropoli si assiste ad una desertificazione. Alessandro Coppola, urbanista, professore associato al Politecnico di Milano e autore del libro Apocalypse Town (Editori Laterza), spiega che perfino nelle città piccole e medie della Lombardia la popolazione è in costante calo, con effetti visibili sul patrimonio immobiliare: case adatte a famiglie numerose abbandonate, prezzi a picco e poche abitazioni adatte a nuclei più piccoli. A causare l’inverno demografico in Italia come nei principali Paesi occidentali sono diversi fattori socio-economici e culturali. Tra i più rilevanti c’è il cosiddetto «empowerment femminile», che si traduce in un maggiore accesso all’istruzione e una più ampia partecipazione al mercato del lavoro delle donne, unito all’aumento dei costi associati alla crescita e all’educazione dei figli. Nel nostro Paese circa metà delle donne in età fertile non ha nemmeno un figlio e l’età media delle madri al momento del parto continua a salire. Anche le straniere residenti in Italia fanno meno bambini. Questo significa che l’ambiente socio-economico del Paese ospitante, caratterizzato da alto costo della vita, difficoltà di accesso a servizi per l’infanzia, incertezze del mercato del lavoro e nuclei familiari più piccoli, esercita un’influenza determinante sulle scelte riproduttive, indipendentemente dal background culturale di origine. Di conseguenza, le politiche mirate esclusivamente ad incrementare i flussi migratori per contrastare il calo demografico potrebbero offrire solo un sollievo temporaneo.

La riduzione e l’invecchiamento della popolazione avranno un effetto pesante sul mondo del lavoro. Il rapporto del McKinsey Global Institute Dependency and depopulation evidenzia che la quota di persone in età lavorativa nelle economie avanzate e in Cina scenderà dal 67 per cento attuale al 59 per cento entro il 2050.  Ciò implica anche che i dipendenti saranno mediamente più anziani, con possibili ripercussioni sulla produttività e sull’adattabilità alle nuove tecnologie.  Alcuni economisti temono che una bassa fecondità, portando a un minor numero di «cervelli» al lavoro, potrebbe «asfissiare l’innovazione» e condurre a una stagnazione economica di lungo periodo. Altri economisti, tra cui Oded Galor e quelli dell’Imperial College London, propongono una visione differente: coorti di nascita più piccole potrebbero beneficiare di maggiori investimenti pro capite in istruzione e capitale umano, potenziando la produttività e la capacità innovativa. Inoltre, una popolazione numericamente inferiore garantirebbe una minore pressione sulle risorse naturali e sulle infrastrutture, con possibili benefici ambientali ed economici. Insomma, due visioni opposte. Invece gli esperti sono concordi su un punto: l’inverno demografico avrà un impatto negativo sulla spesa pubblica e sui sistemi pensionistici. Una popolazione in età lavorativa più ridotta comporta una base imponibile più ristretta per la riscossione delle imposte, mentre l’invecchiamento determina un aumento della spesa sanitaria. 

Inoltre la combinazione di una ridotta natalità e di una maggiore longevità implica un numero minore di lavoratori attivi chiamati a sostenere un numero crescente di pensionati. In Italia, si prevede che il rapporto tra lavoratori e pensionati si avvicinerà a 1:1 entro il 2050, rendendo i sistemi a ripartizione (dove sono i contributi dei lavoratori a pagare le pensioni) intrinsecamente insostenibili senza riforme profonde. Oltre a suggerire un innalzamento dell’età pensionabile, molte proposte di riforma includono il rafforzamento della previdenza integrativa e delle assicurazioni private.  Tuttavia, l’accesso e la capacità di contribuire a fondi integrativi sono spesso correlati al reddito, alla sicurezza del posto di lavoro e all’alfabetizzazione finanziaria. Pertanto, un passaggio mal gestito potrebbe portare a un sistema di welfare a due velocità, in cui gli individui con redditi più alti mantengono una buona copertura attraverso opzioni private, mentre i gruppi a basso reddito o più vulnerabili si ritrovano con una previdenza pubblica in contrazione, esacerbando così le disuguaglianze esistenti. Come uscirne? La migrazione è frequentemente citata come un potenziale strumento per compensare il declino della popolazione e le carenze di manodopera. Ma non sarà una panacea, la semplice accoglienza di un maggior numero di immigrati è insufficiente; l’attenzione dovrà concentrarsi su chi arriva, quali competenze porta con sé e come viene integrato nella società e nel mercato del lavoro per garantire un beneficio reciproco. Inoltre una gestione inadeguata dell’immigrazione può generare tensioni sociali. 

Quindi l’unica soluzione è avviare riforme per sostenere la natalità e la famiglia e per rendere i sistemi di welfare sostenibili per il futuro. Il Fondo monetario internazionale consiglia di introdurre congedi parentali generosi e asili nido sovvenzionati (sul modello nordico) e di investire in tecnologia e automazione (come in Giappone). L’Ocse raccomanda riforme per garantire l’adeguatezza e la sostenibilità dei sistemi pensionistici, con incentivi per i lavoratori anziani. Ma resta un problema da risolvere: dove trovare tutti questi soldi mentre la spesa pubblica aumenta? Un bel rebus.

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Panorama

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