Invalsi salva le classi pollaio: non inficiano la formazione, anzi. L’anticipazione mentre il governo annuncia tagli

  • Postato il 1 luglio 2025
  • Scuola
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Nonostante la presentazione del rapporto Invalsi 2025 sia prevista per il 9 luglio, con regole restrittive sulle anticipazioni per tutti i giornalisti, il Sole 24 Ore ne ha pubblicato un’anticipazione con alcuni dati ed elaborazioni, incluse le spiegazioni del presidente Roberto Ricci che il quotidiano definisce uno “dei principali esperti italiani di valutazione scolastica del nostro Paese”. Il focus: “Gli apprendimenti bassi non sono un prodotto delle classi numerose”. L’analisi sfaterebbe un luogo comune “diffuso” e cioè che i livelli bassi di apprendimento non sono legati all’affollamento delle classi, implicitamente suggerendo che ridurre il numero di alunni per classe non aiuterebbe nella loro formazione.

I dati. Nelle scuole primarie, la percentuale di studenti con difficoltà si attesterebbe intorno al 52,4% per le classi con meno di 20 alunni, mentre scenderebbe al 45,6% per quelle con oltre 25 studenti. Nella scuola secondaria di primo grado, la stessa situazione: 27.190 studenti risultano “low performer” nelle classi meno numerose contro i 23.077 di quelle più affollate. “Il punto – si legge – è che contrariamente a quanto si possa pensare, le classi italiane sono tra le meno affollate al mondo. Nel corso degli ultimi decenni, l’aumento del numero di insegnanti da un lato (soprattutto sul sostegno) e la riduzione della popolazione studentesca dall’altro (per via della denatalità) ha portato l’Italia a posizionarsi ampiamente sotto la media Ocse, sia per numero di studenti per classe sia per numero di studenti per insegnante”.

Colmare i divari? No, personalizzare. A guardare bene, però, le classi meno numerose sono quelle al sud. Basilicata, Campania, Calabria: si va dai 15 ai 19 studenti di media. Ricci, come riportato dal Sole, dice che “non è il numero di studenti per classe a determinare in modo significativo l’incidenza della dispersione implicita” bensì la “dimensione della persona” con la necessità di “riconoscere l’unicità di ogni studente, valorizzandone i bisogni educativi, sostenendone la motivazione e costruendo percorsi di apprendimento personalizzati è possibile affrontare con efficacia il fenomeno”. Un commento in linea con la progressiva vocazione dell’Invalsi di individuare le “fragilità” degli studenti attraverso i suoi penetranti test, con tutte le criticità di privacy che si porta dietro e su cui sono anche stati presentati reclami al Garante Privacy .

Preparazione ai (nuovi) tagli. Questa “rassicurazione” arriva poi proprio pochi giorni dopo le dichiarazioni del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti in audizione, che sostiene la necessità di “ripensare” la spesa pubblica per l’istruzione. Riferendosi al calo demografico, ha detto che “ci induce a un ripensamento in chiave prospettica delle strutture, del personale e della spesa che nel futuro sarà assegnata all’istruzione”. Il loro ridimensionamento quantitativo, ha aggiunto, “renderà necessario puntare a una migliore qualità”. Dunque, nuovi tagli a partire dai docenti. E come si fa? Accorpando le classi. “Tra l’anno scolastico 2018/2019 e 2022/2023 si conta una riduzione del 5,2 per cento degli studenti – ha spiegato il ministro – il calo riguarda in particolare la scuola dell’infanzia e la scuola primaria e viene parzialmente per ora compensato dal progressivo incremento degli iscritti con cittadinanza straniera e del tasso di scolarità nella fascia dei 15-19enni”. Già con l’ultima manovra e il dimensionamento scolastico, si sono persi 5.660 posti di insegnanti e 2.174 di personale ATA. Ora, la base teorica Invalsi per procedere è pronta.

Le differenze dei centri. “Bisognerebbe vedere meglio come sono i dati di partenza e se ci sono ragioni reali per interessarsi alla numerosità delle classi. – spiega Andrea Mariuzzo, professore associato di Storia della pedagogia all’Università di Modena e Reggio Emilia – A occhio però mi sembra che semplicemente si confermi il fatto che il rendimento nell’acquisire le abilità di base è fortemente correlato non tanto al contesto scolastico che si vive, ma al background di provenienza”. In altri termini, spiega, uno studente figlio di non italofoni con titoli di studio bassi che svolgono lavori mal pagati tenderà ad avere problemi a scuola anche se vive in un paesino in cui le classi della scuola dell’obbligo sono piccole perché bambini e bambine in età scolare sono pochi “mentre chi vive in una condizione socio-culturale più solida, magari in un grande centro dove è comune in certi casi avere classi di 25 studenti, avrà comunque buoni risultati”.

Le classi pollaio. Del resto, spiega Mariuzzo, il fenomeno delle cosiddette “classi-pollaio” si è molto ridotto e circoscritto, in primo luogo per effetto del calo demografico, quindi effettivamente l’attenzione alle dimensioni delle classi non è più attuale. “Sempre che non si voglia far passare l’equazione per cui classi più grandi uguali meno insegnanti (e quindi meno spesa per i loro stipendi), cosa che non solo è sbagliata visto che gran parte delle classi piccole non sono accorpabili perché si trovano in piccoli centri”. L’alternativa sarebbe voler sdoganare definitivamente la pluriclasse come già si fa in molte scuole primarie di Paese “ma è anche facilmente strumentalizzabile nella retorica anti-docenti”.

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Il Fatto Quotidiano

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