Inter-Milan, il derby degli opposti: due idee di calcio e costruzione della squadra completamente diverse
- Postato il 23 novembre 2025
- Calcio
- Di Il Fatto Quotidiano
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Il problema dei numeri è che spiegano soltanto una parte di verità. È una regola che trova applicazione in più o meno tutti gli ambiti, ma che diventa particolarmente ferrea quando si parla di pallone. Così i due punti che separano in classifica Inter e Milan raccontano di un risultato quasi simile, omettendo però le premesse opposte con cui i due club avevano iniziato la stagione. L’estate delle milanesi è stata scandita dall’ossessione del rilancio.
L’Inter aveva inseguito il doppio sogno scudetto-Champions League fino all’ultima curva. Poi lo aveva visto scoppiare come una bolla di sapone. Il 5-0 incassato dal Paris Saint Germain a Monaco di Baviera aveva travalicato il perimetro della sconfitta per diventare una vera e propria Caporetto nerazzurra. All’improvviso, l’Inter si era scoperta bella ma fragile come una statuetta di vetro. In verità i tentennamenti di Inzaghi sul suo futuro avevano già iniziato ad aprire una crepa nella testa della squadra prima ancora che nelle gambe. E le cose erano presto precipitate. Prima l’allenatore aveva deciso di sposare l’Al Hilal. Poi, al termine della sfida contro il Fluminense nel Mondiale per club, capitan Lautaro Martinez aveva tuonato contro i compagni: “Chi non vuole più stare qui, è giusto che se ne vada. Io do tutto per questa maglia e pretendo lo stesso da chi mi sta accanto”. Un’accusa generica che era diventata assolutamente specifica poco dopo, quando Marotta aveva rivelato che il destinatario dell’affondo era Calhanoglu. Il giocattolo si era frantumato in mille pezzi. Anzi, sembrava quasi che l’unico collante in grado di tenere insieme quel gruppo fosse proprio Inzaghi. Molti dei giocatori che fino a maggio erano stati fondamentali per il club, ora sembravano obsolescenti, esuberi da piazzare altrove il prima possibile.
Le cose per il Milan non erano andate poi molto meglio. I rossoneri erano stati protagonisti di una stagione catastrofica rispetto al valore della propria rosa. Il club aveva scelto prima Fonseca e poi Conceiçao senza troppa convinzione. E gli effetti negativi erano stati enormi. Una squadra con alcuni singoli di alto livello non era mai diventata un gruppo. La vittoria della Supercoppa era stata una gioia effimera. E i sogni scudetto erano stati sovrascritti dalla realtà di un deludente ottavo posto finale.
In estate Inter e Milan hanno risposto allo stesso bisogno di riscatto in modo diverso. I nerazzurri hanno guardato soprattutto in avanti. Non sempre con una visione chiara. Il tentativo fallito di affidare la panchina a Fabregas (solo pochi giorni dopo che lo spagnolo aveva già detto no alla Roma per restare a Como) aveva fatto passare la scelta di Chivu come un ripiego. D’altra parte il curriculum del romeno era ridotto all’osso. Tredici partite sulla panchina del Parma dopo un triennio da allenatore della primavera nerazzurra. E anche se i gialloblù avevano mostrato un gioco interessante, per Chivu il rischio di bruciarsi era altissimo. L’obiettivo primario era però ringiovanire una rosa in cui molti pezzi da novanta avevano ormai scaricato il contachilometri: Acerbi compirà 38 anni a febbraio, Sommer e Mkhitaryan vanno per i 37. E poi ci sono Darmian (36 a dicembre), de Vrij (quasi 34) e Calhanoglu (32 fra un paio di mesi). Tutti i nuovi acquisti avevano in comune un requisito fondamentale: la futuribilità. L’unica eccezione è stata Akanji, arrivato a Milano a trent’anni. Per il resto l’Inter ha tenuto in rosa Esposito, 19 anni. Ma ha anche preso Sucic (21 anni), Diouf (22), Luis Henrique (23) e, soprattutto Bonny (21), uno che a Parma aveva dimostrato di saper interpretare alla grande il ruolo di centravanti di movimento. Il risultato è stato la creazione di una doppia coppia offensiva, con Thuram e Lautaro che possono contare su “vice” perfettamente compatibili. Il Mondiale per Club è stato avaro di soddisfazioni. Ma è stato anche uno stress test importante per Chivu. Il romeno ha dimostrato di saper mixare le sue idee con quelle che gli sono state lasciate in eredità da Inzaghi, senza dover per forza rompere tutto come il famoso elefante nel negozio di cristalli. La squadra è ancora tutt’altro che perfetta. Le tre sconfitte subite e i 12 gol incassati in campionato raccontano piuttosto bene di quanto alcuni meccanismi difensivi siano ancora troppo delicati, di quanto il mister debba lavorare ancora sui blackout che sono costati punti pesanti.
Il Milan, invece, ha preferito guardare soprattutto al passato. Dopo le scelte esotiche della passata stagione serviva un allenatore credibile, concreto, decifrabile fin da subito. La proprietà così è andata dritta su Allegri, l’uomo che per tutta la sua seconda avventura alla Juventus era stato trasformato quasi un una macchietta da una certa critica, attenta a descriverlo quasi come un ayatollah del catenaccio, come un grigio burocrate specializzato nella vittoria di misura. Ma era anche l’uomo dello scudetto rossonero del 2011. Il suo quadriennio sulla panchina del Diavolo era stato ricco di chiaroscuri. Dopo il tricolore (vinto anche un po’ a sorpresa) e la successiva Supercoppa, le cose erano diventate sempre più difficili. Allegri e il Milan si erano sfiancati a vicenda. Complice anche un progressivo indebolimento della rosa e un passato divenuto troppo ingombrante per un club che soffriva di un’emorragia tecnica. Fino alla famosa uscita del febbraio del 2013 in cui Berlusconi diceva chiaramente: “Allegri? No el capisse un casso”. In estate le cose sono cambiate. Il Milan aveva bisogno di Allegri per rilanciarsi tanto quanto Allegri aveva bisogno del Milan per cancellare l’ultima fase della sua avventura in bianconero. Le strade del calciomercato, però, hanno portato il Diavolo esattamente dalla parte opposta rispetto ai nerazzurri. Alla fine dei conti l’operazione più importante è stata la cessione di Reijnders, uno dei migliori centrocampisti della Serie A, al City per 75 milioni. E per sostituirlo è stato preso Luka Modric, giocatore dalla classe abbacinante ma dalla carta di identità pesante come il piombo (con i suoi 39 anni). Senza contare che in mediana sono arrivati anche Rabiot, uno dei fedelissimi di Allegri, ormai trentenne, e Samuele Ricci, alla ricerca della consacrazione definitiva. Un usato sicuro che al momento sta funzionando più dei giocatori arrivati per dare futuro al progetto.
Per questo il derby di oggi non assegna solo tre punti buoni per la corsa verso il titolo e per la supremazia cittadina. Perché a sfidarsi sono soprattutto due idee completamente diverse di fare calcio e di costruire una squadra. Chivu ci arriva con l’imbarazzo della scelta in attacco, Allegri dovendo inventare un centravanti. Tutto assolutamente prevedibile nella stracittadina degli opposti.
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