Inno di Mameli blindato dal governo: scongiurati gli agguati in chiave "woke"

  • Postato il 16 marzo 2025
  • Di Libero Quotidiano
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Inno di Mameli blindato dal governo: scongiurati gli agguati in chiave "woke"

A quasi due secoli dalla composizione e a sette anni e mezzo di distanza dalla legge che l'ha elevato de iure a inno nazionale dopo sette decenni di provvisorietà, l'Inno di Mameli ha finalmente ricevuto l'approvazione del Consiglio dei ministri allo schema di decreto del presidente della Repubblica del 2007. Il Te deum per la conclusione di un iter a dir poco accidentato si sostituisce alle note di Michele Novaro buttate giù di getto nel leggere i versi del giovanissimo Goffredo Mameli. Non ha la solennità dell'inno tedesco di Franz Joseph Haydn, non possiede la levità di Wolfgang Amadé Mozart per l'Austria, né l'impeto irresistibile della Marsigliese francese (di musica italiana), né tantomeno la maschia ampollosità dell'inno sovietico e oggi russo, ma è pur sempre Il canto degli italiani. I suoi limiti strutturali letterari e musicali passano in secondo piano rispetto allo spirito e alla forza ideale dell'epopea risorgimentale, che ne spiega il volo retorico sui fratelli d'Italia e l'elmo di Scipio.

Un inno deve essere questo, d'altronde, e se lo esprime poco importa che non sia un capolavoro di bellezza, perché all'inchiostro su pergamena e carta pentagrammata, dall'Ottocento a ieri si è sostituito il sangue versato da chi ha creduto negli ideali di unità e libertà, in tutte le epoche in cui essi sono state negati, o in pericolo, o cancellati e riaffermati col sacrificio. Goffredo Mameli fu uno di quelli che per questo si batterono, morendo a ventuno anni nel 1849. Scrisse ciò in cui credeva, e se oggi i suoi versi risuonano criptici la colpa non è sua («stringiamci a coorte», senza la “o” per motivi metrici). Quanto alla musica, Michele Novaro era il primo a sapere di non essere Giuseppe Verdi: compose ciò che sentiva suo e con l'ispirazione del momento. Ci hanno provato in tanti a riorchestrare il Canto, ma neanche il sopraffino Maurice Ravel sarebbe riuscito a nobilitarlo.

 

Perché è la storia che regge quella partitura, non il soffio dell'arte. Lo si capisce istantaneamente da quell'attacco in levare (anacrusico) che spiazza per lo spostamento d'accento, e dall'armonia schematica (modulazione da Sib a Mib e qualche nota di volta). Novaro, nell'autografo scrive: «Quest'inno fu da me composto verso la fine dell'anno 1847 in Torino dove avevo stabile dimora», città «diletta» alla quale lo dedica. Lo schema di decreto stabilisce le modalità di esecuzione dell'Inno nazionale nelle occasioni istituzionali e pubbliche. Le sei strofe e il ritornello hanno un senso compiuto se l'opera poetica di Mameli è presa nella sua interezza, ma è diventata prassi eseguire solo le prime due, con i richiami alati alla vittoria schiava di Roma, creata per questo da Dio.

Nell'inno c'è pure un omaggio alla nazione sorella risorgimentale, la Polonia privata della libertà e soffocata nelle sue aspirazioni: anche nell'inno nazionale polacco c'è un richiamo all'Italia, e questa vicendevole citazione è un caso unico al mondo. Di recente è stata sollevata la tempesta in un bicchiere d'acqua minerale sulla presunta non inclusività del Canto degli italiani perché è aperto dal vocativo «Fratelli d'Italia», senza riferimenti alle donne. Fortunatamente, tra le tante ipotesi di rivisitazione, ci è stata risparmiata almeno quella con lo schwa e dei versi alternati al maschile e al femminile.

 

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Libero Quotidiano

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