In Italia chiudono 6 bar al giorno, Balzola: “Chi apre solo per guadagnare, chiude in fretta. Servono formazione e progettualità”
- Postato il 1 novembre 2025
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- Di Il Vostro Giornale
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Provincia. In Italia chiudono circa 6 bar al giorno (oltre 21mila bar in dieci anni). Quasi la metà non supera i cinque anni di vita. Numeri che Italia a Tavola ha messo nero su bianco in una recente inchiesta (“Il futuro del bar italiano”) e che raccontano una crisi profonda, che va oltre le bollette e i rincari.
ASCOLTA “LA TELEFONATA” CON CARLOMARIA BALZOLA
Un allarme che trova eco anche nel savonese, dove molti locali storici faticano a resistere e le nuove aperture spesso durano lo spazio di una stagione.
Ne abbiamo parlato con Carlomaria Balzola, presidente provinciale di FIPE Confcommercio e titolare dell’omonima e storica caffetteria alassina. Con lui proviamo a capire quanto di quella “crisi culturale” denunciata a livello nazionale si respiri anche tra le vie e le piazze della Riviera.
Presidente, l’inchiesta di “Italia a Tavola” parla di una crisi “culturale” del bar italiano, più che economica. Lei la riconosce anche nel savonese?
L’aspetto positivo è che il settore dei servizi, e in particolare quello della ristorazione, resta molto appetibile. Parliamo di un comparto con margini lordi del 60-70% e un aumento del valore aggiunto del 6,3% nel 2024: è un settore in crescita. Tuttavia condivido l’idea che serva tornare a una visione più “culturale” del bar, non solo economica. Il bar non è solo caffè: è servizio, qualità, formazione, accoglienza. Purtroppo oggi tanti entrano nel settore attratti dalla redditività, senza avere competenze o visione. Bisogna cambiare approccio: non più solo numeri e costi, ma organizzazione qualitativa e cultura del mestiere. Solo così il bar può tornare ad essere un punto di riferimento sociale e non un semplice esercizio commerciale.
Nella nostra provincia, quante attività hanno abbassato la serranda negli ultimi anni? C’è un fenomeno simile ai dati nazionali (47% di chiusure entro cinque anni)?
La situazione savonese riflette quella nazionale. Le liberalizzazioni hanno portato molta libertà di apertura, ma anche una certa confusione. Oggi chiunque può aprire un bar: basta trovare un locale adatto e spesso, grazie ai comodati d’uso, l’investimento iniziale è minimo. Questo ha creato una saturazione di mercato evidente. Dove una volta c’erano due bar che lavoravano bene, oggi ce ne sono quattro, e inevitabilmente uno o due chiudono. È un ciclo continuo di aperture e chiusure, segno che manca una pianificazione di lungo periodo.
L’inchiesta denuncia che “chiunque può aprire un bar”, grazie ai pacchetti chiavi in mano offerti dalle torrefazioni. È così anche qui? Quanto pesa il sistema dei comodati d’uso nel savonese?
È una realtà anche da noi. Il comodato d’uso permette di partire con spese minime, ma questo spesso porta a un’idea sbagliata del mestiere. Aprire un bar non può essere una scelta “rapida”, deve essere una progettualità di lungo periodo. Chi entra nel settore deve ragionare con una prospettiva di almeno 7-8 anni, con un piano economico solido e una visione di sviluppo. Troppe volte si apre senza competenze e si chiude poco dopo. La formazione e una corretta analisi di mercato sono indispensabili, perché le tendenze cambiano in fretta e ciò che funzionava un anno fa oggi può non avere più mercato.
La facilità con cui si apre un locale senza competenze ha influito sul livello medio della qualità del caffè e del servizio nella nostra provincia?
Sì, inevitabilmente. Quando si entra in un settore solo per calcolo economico, la qualità tende a risentirne. Gestire i costi, adattarsi alle tendenze e mantenere alta la qualità dell’offerta sono elementi che vanno di pari passo. La qualità paga sempre, indipendentemente dal tipo di locale o dal target di clientela. È la qualità che fa la differenza e che fidelizza il cliente nel tempo.
FIPE Confcommercio cosa può fare, o sta già facendo, per restituire valore e professionalità a questo mestiere?
Il nostro impegno è su più fronti: promuoviamo la formazione e il confronto tra operatori, ma serve anche un cambio di mentalità collettivo. Non basta formare chi sta dietro al bancone: anche il consumatore deve essere “educato” alla qualità. Pensiamo a quanto è cambiato il mondo del vino: fino a qualche anno fa sembrava tutto uguale, oggi il pubblico riconosce le differenze e sa apprezzare la qualità. Lo stesso deve avvenire per il caffè. Il cliente medio magari non distingue ancora un’arabica da una robusta, ma comincia a percepire il valore di un prodotto curato e ben servito. È un passo culturale importante.
Oltre alla parte datoriale, è cambiato qualcosa anche dall’altra parte del bancone? C’è un cambiamento nella domanda? Le persone chiedono qualità o cercano solo prezzo e velocità?
Il consumatore oggi è più consapevole, ma purtroppo in Italia continuiamo a sottovalutare il valore del caffè. Un espresso a 1,50 euro viene percepito come “caro”, mentre all’estero un’arabica in autogrill costa tranquillamente 1,80 o 2 euro. Dobbiamo difendere l’italianità del nostro rito quotidiano, che è un vero e proprio “rito laico”. Il bar italiano è un presidio sociale e culturale, non solo un luogo dove si beve in fretta e si va via. Serve un’offerta coerente con questa identità.
Se dovesse dare un consiglio a un giovane savonese che sogna di aprire un bar, quale sarebbe la prima cosa da imparare prima di firmare un contratto con una torrefazione?
Gli direi di studiare, formarsi e soprattutto di costruire una progettualità. Il nostro settore crea economia e socialità, ma va affrontato con consapevolezza. Bisogna imparare a leggere i numeri, capire i costi, conoscere i prodotti e soprattutto avere una visione di lungo periodo. Aprire un bar significa entrare in un mondo complesso ma pieno di opportunità: chi lo fa con serietà e qualità, trova sempre spazio.