Impieghi degradati, stipendi giù e lo spettro dell’ozio di massa: così l’IA cancella il lavoro come lo conosciamo

  • Postato il 16 settembre 2025
  • Innovation
  • Di Forbes Italia
  • 1 Visualizzazioni

Articolo tratto dal numero di settembre 2025 di Forbes Italia. Abbonati!

Il pomeriggio dell’11 marzo 1811, alcune centinaia di operai tessili si ritrovarono nella piazza del mercato di Nottingham. Protestavano contro le condizioni di lavoro: da quando i proprietari delle fabbriche avevano introdotto i telai meccanici, i compensi erano crollati. Arrivarono poliziotti e soldati. I lavoratori si dispersero, ma più tardi si riunirono per marciare verso Arnold, cinque miglia più a nord. Altri si unirono a loro. Da poche centinaia, divennero due o tremila. Quella notte distrussero 63 telai degli industriali più impopolari. Fecero danni per qualche centinaio di sterline, pari ad alcune migliaia di euro di oggi. La gente di Arnold li incitò e provò a ostacolare l’intervento delle autorità. Solo la mattina seguente un gruppo di militari a cavallo riportò l’ordine.

Nei mesi successivi gli operai inglesi avrebbero continuato ad attaccare le macchine che minacciavano di sostituirli. Si facevano chiamare ‘luddisti’ perché si ispiravano al ‘Generale Ludd’: Ned Ludd, un operaio – forse mai esistito – che nel 1779 si sarebbe ribellato al datore di lavoro e avrebbe preso a martellate un telaio. Secondo un articolo dell’epoca, pubblicato dallo Statesman di Londra e citato di recente dal New Yorker, nel dicembre del 1811 a Nottingham avevano già distrutto 900 telai. Ventimila persone avevano perso il lavoro. “Dio solo sa quale sarà la fine di tutto questo”, scriveva lo Statesman. “Nient’altro che rovina”.

Le rivolte luddiste si esaurirono nel 1816, ma di recente sono tornate di moda. Nel libro Blood in the Machine il giornalista e scrittore Brian Merchant, esperto di tecnologia, ha proposto di rivalutare i luddisti: non retrogradi che ostacolano il progresso, ma difensori dei diritti degli operai e del valore del lavoro. Ne hanno parlato, tra gli altri, anche Time, National Geographic, Guardian e New Yorker. Sempre per la stessa ragione: chiedersi se l’avvento dei telai meccanici di inizio ‘800 possa insegnarci qualcosa su quello dell’intelligenza artificiale nel XXI secolo.

L’impatto dell’IA sull’occupazione

Negli ultimi anni diversi studi hanno cercato di misurare l’impatto dell’IA sul lavoro. Tutti concordano su un punto: l’intelligenza artificiale influirà su gran parte delle occupazioni. Per le Nazioni Unite e il Fondo monetario internazionale toccherà il 40% dei lavori. Più difficile capire quanti impieghi dovranno solo integrare l’IA e quanti scompariranno. Il World Economic Forum ha scritto che il 40% delle aziende prevede di tagliare personale laddove l’intelligenza artificiale permette di automatizzare i compiti. Nell’ultimo Future of Jobs Report sostiene che l’IA e le tecnologie di elaborazione delle informazioni creeranno più lavori di quelli che elimineranno (11 milioni contro 9), ma altri settori collegati – la robotica e i sistemi autonomi – porteranno a una perdita netta di 5 milioni di posti. In Italia, uno studio di Censis e Confcooperative dice che l’IA si integrerà con 9 milioni di lavori e ne sostituirà 6 milioni.

Ci sono anche studi ottimisti. Il Global AI Jobs Barometer di PwC afferma che gli stipendi aumentano più in fretta nei settori toccati dall’intelligenza artificiale. “L’occupazione sta crescendo in quasi tutte le categorie esposte all’IA, incluse quelle ritenute altamente automatizzabili”, ha detto Alessandro Caridi, digital innovation leader di PwC Italia.

Il tramonto del tecno-ottimismo

Per molto tempo la linea dell’ottimismo ha dominato la Silicon Valley e le imprese. Il mantra è quello ribadito qualche mese fa da Sundar Pichai, amministratore delegato di Alphabet (Google), alla conferenza BloombergTech di San Francisco: l’IA non renderà superflui i suoi ingegneri, ma permetterà loro di sbrigare in fretta le mansioni banali e dedicare più tempo a quelle di maggiore valore. Jensen Huang, fondatore di Nvidia, ha detto alla Cnn che l’IA eliminerà posti di lavoro solo se “il mondo esaurirà le idee”.

Negli ultimi mesi, però, diversi manager e imprenditori hanno prospettato altro. Molti giornali hanno riportato il messaggio di Micha Kaufman, ad della piattaforma di servizi freelance Fiverr, ai suoi 1.200 dipendenti: “L’IA sta venendo a prendersi i vostri lavori. Diamine, sta venendo a prendersi anche il mio”. Andy Jassy, ad di Amazon, ha preannunciato che gli “aumenti di efficienza” dovuti all’IA porteranno a una “riduzione della forza lavoro”. Jim Farley, numero uno della Ford, è convinto che “l’intelligenza artificiale rimpiazzerà la metà dei colletti bianchi degli Stati Uniti”.

Perché i giovani rischiano di più

Alcuni prevedono che a pagare più di tutti saranno i giovani. Ne ha parlato Aneesh Raman, ex corrispondente di guerra della Cnn e autore di discorsi per Barack Obama, oggi chief economic opportunity officer di LinkedIn. “A rompersi per primo”, ha scritto sul New York Times, “è il gradino più basso della scala di carriera”. A suo giudizio, “sempre più segnali” indicano come l’IA minacci “gli impieghi che, di norma, servono da primo passo per ogni nuova generazione di giovani lavoratori”. Il problema è che il periodo dopo la laurea è “particolarmente delicato”: partire in ritardo “può rallentare le carriere per decenni”. Secondo il Center for American Progress, chi rimane disoccupato per sei mesi a 22 anni guadagna 22mila dollari in meno nel decennio successivo.

Alcuni studi sostengono che il fenomeno sia già in corso. La società di venture capital SignalFire ha calcolato che nel 2024 le grandi aziende tecnologiche hanno assunto il 25% di neolaureati in meno rispetto al 2023. Nelle startup il calo è dell’11%. Secondo Asher Bantock, capo della ricerca di SignalFire, ci sono “prove convincenti” che l’IA sia un fattore significativo. Nel frattempo sono aumentate le assunzioni di professionisti esperti. Sembra il paradosso del Comma 22 di Joseph Heller, quello per cui “chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo”, ma “chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Come ha detto la giornalista di TechCrunch Marina Temkin, “non si può essere assunti senza esperienza, ma non si può accumulare esperienza senza essere assunti”.

Intanto nell’industria tecnologica ci sono già casi di tagli massicci dovuti all’IA. Sebastian Siemiatkowski, ad della fintech svedese Klarna, ha riferito di avere tagliato il 40% del personale – circa duemila persone – anche grazie agli investimenti nell’intelligenza artificiale. CrowdStrike, un’azienda texana di sicurezza informatica, ha eliminato 500 posti di lavoro e ha parlato di “un punto di svolta nel mercato e nella tecnologia, con l’IA che trasforma ogni settore”.

Il deterioramento degli stipendi

A differenza di altre innovazioni del passato, l’IA avrà un impatto su tanti lavori molto qualificati. Il Censis ha calcolato che il grado di esposizione all’intelligenza artificiale aumenta con il livello di istruzione: la quota di laureati tra i lavoratori a basso rischio è del 3%, contro il 33% di quelli in pericolo di sostituzione e il 59% di quelli che dovrebbero integrare l’IA nelle loro mansioni. Tra le posizioni più vulnerabili ce ne sono alcune che da tempo sono sinonimo di stipendi alti e facilità di trovare impiego. Quelle nelle banche di investimento di Wall Street, per esempio, o nelle aziende tecnologiche della Silicon Valley. E non è solo questione di numero di posti, ma anche di qualità del lavoro.

“Gli aspetti distruttivi più urgenti non hanno a che vedere con la fine di determinate posizioni lavorative, ma con il deterioramento della retribuzione”, dice Francesca Coin, sociologa dell’Università di Parma che si occupa di lavoro e disuguaglianze sociali, autrice del libro Le grandi dimissioni. “Molte persone – penso ai traduttori, spesso già sottopagati – stanno già facendo i conti con compensi decurtati, perché ora c’è una tecnologia che è in grado di fare il loro lavoro”.

Lavoro degradato

Il giornalista del New York Times Noam Scheiber ha ricordato che spesso la tecnologia, quando ha trasformato le fabbriche e gli uffici, non ha eliminato lavori, ma li ha “degradati”. Li ha frammentati in mansioni semplici, da ripetere per tutto il giorno a un ritmo molto alto. “Le piccole officine di meccanici esperti”, ha scritto, “hanno lasciato spazio a centinaia di lavoratori disseminati lungo una catena di montaggio. Il segretario personale ha fatto posto a gruppi di dattilografi e addetti all’inserimento dei dati”. 

Qualcosa di simile, sostiene, sta succedendo ai programmatori di Amazon. Un ingegnere ha riferito che il suo gruppo di lavoro è stato dimezzato rispetto a un anno fa, ma deve produrre più o meno la stessa quantità di codice usando l’IA. Altri hanno raccontato che i dirigenti, contando sull’apporto dell’intelligenza artificiale, continuano ad aumentare gli obiettivi di produzione e sono sempre meno flessibili sulle scadenze. I programmatori, insomma, potrebbero trovarsi in una condizione equivalente a quella che i loro colleghi dei magazzini hanno vissuto anni fa, quando Amazon introdusse i robot: niente più chilometri per recuperare i prodotti, ma ore e ore fermi nello stesso posto, a prelevare gli articoli portati dalle macchine.

Verso l’era dell’ozio di massa?

Come i luddisti non riuscirono a fermare l’avanzata del telaio, oggi è impensabile fermare quella dell’IA. Secondo PwC, l’intelligenza artificiale potrebbe far crescere il Pil globale del 15% nei prossimi dieci anni. E ci sono settori in cui reperire manodopera è sempre più difficile. Lo scorso anno Confartigianato segnalava che la scarsità di personale qualificato era il problema principale per più della metà delle pmi italiane. Per tanti rami della manifattura e della logistica, ad esempio, o per molti imprenditori agricoli e ristoratori, ricorrere all’intelligenza artificiale e alla robotica può essere questione di sopravvivenza.

I più ottimisti suggeriscono che l’IA possa essere anche l’occasione per lavorare meno. Già 95 anni fa l’economista John Maynard Keynes prevedeva che i suoi pronipoti del 2030 avrebbero lavorato 15 ore a settimana. Mentre Bertrand Russell, nell’Elogio dell’ozio, affermava che, “con un minimo di ragionevole organizzazione”, quattro ore di lavoro al giorno sarebbero bastate a produrre abbastanza per tutti. Adesso esperti come Kelly Daniel, prompt director di Lazarus AI, dicono che l’intelligenza artificiale potrebbe accelerare il passaggio a una settimana lavorativa di quattro giorni. Bill Gates si è spinto a ipotizzare quella da due giorni entro dieci anni, Elon Musk prevede un mondo in cui il lavoro sarà “un hobby”. Una specie di era dell’ozio di massa.

“Se volessimo lavorare meno, potremmo già farlo”, osserva però la professoressa Coin. “Molto del lavoro che facciamo è utile a cose inutili, e nella società di oggi coesistono persone in burnout, esaurite per il troppo lavoro, e persone disoccupate. La possibilità di lavorare meno non ha a che fare con la tecnologia, ma con la redistribuzione del lavoro”. L’IA velocizza alcune mansioni, “e sarebbe molto bello se i minuti risparmiati venissero destinati al tempo libero. Per il momento, tuttavia, contribuiscono a intensificare i ritmi di lavoro”. La riduzione dell’orario oggi richiederebbe “una rivoluzione culturale dalla quale siamo ancora lontani. Bisognerebbe interrogarsi su che cosa produciamo, perché lo produciamo, come l’organizzazione del lavoro e della società incide sulla salute mentale. Per ora, lavorare meno è ancora un tabù”.

Se i lavoratori contano meno

Secondo il Wall Street Journal, la perdita di centralità dei lavoratori si rispecchia già nel modo in cui i capi parlano di loro. Se per anni manager e imprenditori hanno ribadito di continuo come i dipendenti fossero la loro risorsa più preziosa, oggi li esortano a “lavorare di più, lamentarsi di meno ed essere grati di avere ancora un impiego”.

Raman, il dirigente di LinkedIn, ha paragonato la situazione dei colletti bianchi nel 2025 a quella dei colletti blu negli anni ‘80, quando iniziò il declino della manifattura statunitense. “Quando i lavori manifatturieri scomparvero nel cuore dell’America”, ha scritto, “il risultato non fu solo una perdita di reddito, ma anche uno sconvolgimento sociale e politico”. Diversi commentatori e studiosi hanno indicato nella deindustrializzazione americana ed europea dovuta al ‘China shock’ – l’avvento dei prodotti cinesi sul mercato dopo l’ingresso di Pechino nell’Organizzazione mondiale del commercio – una delle cause dell’ascesa dei populismi. Il professore del Mit Erik Brynjolfsson, in un articolo su Daedalus, ha rilevato che le persone “mantengono potere negoziale nel mercato del lavoro e nel processo di decisione politica” solo finché rimangono “indispensabili per la creazione di valore”.

Verso il reddito di cittadinanza e oltre

Perfino Dario Amodei, fondatore miliardario dell’azienda di intelligenza artificiale Anthropic, si è detto preoccupato per la possibilità che l’enorme ricchezza prodotta dall’IA finisca nelle mani di poche grandi aziende, mentre grossi pezzi della popolazione non contribuirebbero all’economia. In un’intervista ad Axios ha descritto uno scenario in cui “il cancro sarà curato, l’economia crescerà del 10% all’anno, il bilancio dello stato sarà in ordine e il 20% delle persone sarà senza lavoro”. Per mitigare gli effetti ha proposto una ‘token tax’ per le multinazionali dell’intelligenza artificiale: ogni volta che qualcuno usa un modello IA e un’azienda guadagna, il 3% del ricavo andrebbe al governo per essere ridistribuito. Il premio Nobel per la fisica Geoffrey Hinton, considerato ‘il padrino dell’IA’, è favorevole a un reddito di cittadinanza indipendente dall’occupazione. Musk ha parlato addirittura di “universal high income”, un reddito elevato universale.

“Ci troviamo in un momento di bassissimo consenso nei confronti dei sussidi statali e di smantellamento dello stato sociale”, dice Francesca Coin. “In un contesto simile è difficile pensare all’introduzione di uno strumento come il reddito di base”. Per arrivare a un reddito universale servirebbe un “cambio di sensibilità sociale e politica. E prima o poi ci sarà, perché le disuguaglianze e le ingiustizie sociali sono sempre più smaccate e non possono lasciare indifferenti per sempre. Però non arriverà domani”.

Questione di significato

Musk ha detto anche che un mondo senza lavoro porrebbe un problema di significato. “Se computer e robot possono fare tutto meglio di te, allora la tua vita ha un senso?”, si è chiesto al VivaTech di Parigi nel 2024. Non è un caso se gran parte dei cognomi più diffusi d’Europa hanno significati come ‘fabbro’ (Smith, Fabbri, Ferrari, Ferrer, Kovacs, Lefebvre), ‘mugnaio’ (Müller, Miller, Møller, Vermeulen) o ‘sarto’ (Taylor, Sartori, Sastre). Da secoli l’occupazione è ciò che definisce una persona.

Quando pronosticava un futuro in cui gli esseri umani avrebbero “risolto il problema economico” e potuto ridurre il tempo destinato al lavoro, Keynes riconosceva che “non c’è paese né popolo” che “possa guardare all’età della libertà e dell’abbondanza senza timore”. Perché “è un problema tremendo per una persona normale” trovare “come occuparsi”. La soluzione sarebbe stata imparare “l’arte del vivere”. Viene da immaginare persone che si dedicano alle relazioni, all’arte, alla cultura. Anche se qualcuno teme che nemmeno le attività creative siano al riparo dall’intelligenza artificiale.

I creativi non sono al sicuro

Il regista del Cigno nero, Darren Aronofsky, ha stretto un accordo con DeepMind, azienda di intelligenza artificiale controllata da Alphabet, per realizzare cortometraggi con l’IA. Il web è pieno di musica generata con l’intelligenza artificiale. Meghan O’Rourke, scrittrice e professoressa a Yale, ha scritto sul New York Times che ChatGPT è riuscito a produrre “un saggio nello stile di David Foster Wallace” che “sarebbe stato considerato un ottimo lavoro universitario”. Quando gli ha chiesto una sestina ispirata a Elizabeth Bishop, una delle più importanti poetesse americane del ‘900, ha sbagliato forma. Ma qualche mese dopo ha risposto alla stessa richiesta con un componimento “accurato e bello, a modo suo”.

Lo scorso anno un’altra scrittrice, Joanna Maciejewska, ha pubblicato un tweet che ha avuto enorme successo ed è stato ripreso più di 22mila volte. “Sapete qual è il più grande problema di questa corsa all’IA? Direzione sbagliata”, diceva. “Voglio che l’IA faccia la lavatrice e i piatti in modo che io possa fare arte e letteratura, non che l’IA faccia arte e letteratura in modo che io possa fare la lavatrice e i piatti”.  

L’articolo Impieghi degradati, stipendi giù e lo spettro dell’ozio di massa: così l’IA cancella il lavoro come lo conosciamo è tratto da Forbes Italia.

Autore
Forbes Italia