Il super vicepresidente che sconfisse Al Qaeda

  • Postato il 5 novembre 2025
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  • Di Libero Quotidiano
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Il super vicepresidente che sconfisse Al Qaeda

L’11 settembre 2001, dal bunker della Casa Bianca, fu lui a emanare l’ordine di abbattere ogni altro aereo diretto verso la Casa Bianca o Capitol Hill. Quella mattina, mentre il presidente George W. Bush si trovava nella scuola elementare di Sarasota, in Florida, Dick Cheney era nel suo ufficio alla Casa Bianca. C’è una foto che immortala l’ultimo attimo di quiete prima della tempesta: il vicepresidente nel suo ufficio, mentre guarda il fumo che esce dalla prima delle Twin Towers colpita, ignaro di quanto sta accadendo. Dopo il secondo aereo, tutto sarebbe stato chiaro e nulla più come prima. Quell’evento, ammetterà anni dopo Cheney, lo avrebbe cambiato per sempre.

Trasformando un conservatore classico, cresciuto all’ombra del tranquillo Gerald Ford dopo lo scandalo del Watergate, in un “falco” determinato a proteggere gli Stati Uniti a tutti i costi e costi quel che costi. Richard Bruce Cheney, 84 anni, è morto ieri Jackson Hole, nello Stato del Wyoming, a causa di complicazioni dovute a polmonite e malattie cardiache e vascolari, ha comunicato la famiglia in una nota. Lascia la moglie Lynne, che su di lui ha sempre avuto un grande influsso, ele figlie Mary e Liz, quest’ultima causa della rottura con Donald Trump, che pure aveva appoggiato nel 2016. Per gran parte della sua vita, l’ex vicepresidente aveva dovuto convivere con le bizze del suo cuore, sopravvivendo a quattro infarti. Nel 2012, tre anni dopo aver lasciato la Casa Bianca, aveva subito un trapianto di cuore. «Un dono», lo definì nel 2014.

Deputato repubblicano del Wyoming - dove per dieci anni ha affinato la sua abilità di specialista di campagne elettorali - vicecapo dello staff e poi capo dello staff con Ford, Cheney muove i primi passi nella politica dietro il suo mentore, Donald Rumsfeld, che sarà il compagno di viaggio politico di una vita. Ma è con George H.W. Bush, nel 1989, che “Dick” fa il salto: quando l’ex vice di Ronald Reagan vince lo elezioni nel 1988, lo vuole al Pentagono come segretario alla Difesa. Un mandato caratterizzato dall’invasione di Panama con l’operazione “Just Cause” (1989-1990), ma soprattutto con la prima guerra del Golfo. È Cheney a gestire, con l’allora capo degli Stati maggiori riuniti, Colin Powell, prima “Desert Shield”, lo “scudo nel deserto” a protezione del Kuwait, e poi “Desert Storm”, la “tempesta nel deserto” che all’inizio del 1991 spazza via l’esercito di Saddam Hussein dall’emirato senza, però, arrivare fino a Baghdad. Almeno allora. Quando alla Casa Bianca arrivano i democratici con Bill Clinton ed Al Gore, Cheney lascia la scena pubblica: lavora per Halliburton, multinazionale del settore petrolifero. L’esilio durerà otto anni, ma quando George W. Bush, il figlio del presidente che lui ha servito al Pentagono, si impone a sorpresa proprio contro Gore, Cheney torna alla Casa Bianca dalla porta principale: come vicepresidente. È Bush padre a costruire una “gabbia” di protezione per il figlio, aprendo le porte dell’amministrazione a quelli che erano stati i suoi uomini più fidati: oltre a Cheney, che si ricorda del vecchio sodale Rumsfeld per il Pentagono, c’è anche Powell (segretario di Stato). L’agenda politica repubblicana è rivolta verso l’interno, ma oltre 2.800 morti a New York, frutto del primo attacco sul territorio americano dai tempi di Pearl Harbor- dovuti agli errori di sottovalutazione del terrorismo islamico dei predecessori democratici - invertono le priorità.

La “war on terror” assorbe tutto. Mentre Bush è in volo sull’Air Force One, Cheney gestisce le prime fasi dell’emergenza. È solo l’inizio: con Rumsfeld, il suo vice Paul Wolfowitz, il consigliere per la Sicurezza nazionale “Condi” Rice e gli altri “vulcans” del board, elabora la risposta americana al terrore, fondata sulla «teoria dell’1%»: se c’è anche una piccola eventualità che ci sia una minaccia contro gli Stati Uniti, questa va perseguita. Parole che il vicepresidente pronuncia quando sul tavolo c’è l’ipotesi che Al Qaeda si possa dotare, grazie a scienziati pakistani, di un’arma nucleare. Dopo gli attentati dell’11 Settembre, Cheney diventa l’«architetto» della risposta americana: le campagne in Afghanistan (2001) e Iraq (2003) portano il suo timbro. Così come le misure anti-terrorismo in patria (tecniche di interrogatorio e poteri investigativi dello Stato federale). “Dick” alterna attivismo a mistero: in quegli otto anni sono frequenti le sue partenze improvvise verso località segrete per preservare la linea di successione presidenziale in presenza di una minaccia. Il vicepresidente, per i nemici, diventa l’eminenza nera dell’amministrazione, il “Darth Vader” di Bush. Lui non si pentirà mai. Né delle tecniche di interrogatorio - «lo rifarei senza esitare»- né dell’invasione dell’Iraq («allora era la cosa giusta da fare»). Del resto è grazie a quelle misure eccezionali che Al Qaeda è stata di fatto sradicata e i suoi leader, Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri, identificati ed eliminati. E tutti, oggi, riconoscono a Cheney di essere stato il vicepresidente più potente della storia della politica americana. Repubblicano tradizionale, non ha mai fatto mistero di non sentirsi a suo agio in un partito cambiato a tal punto da identificarsi con il movimento “Maga” di Trump e ai suoi principi dell’America First. Così quando The Donald ingaggia un duello all’ultimo sangue con sua figlia Liz, all’epoca numero tre del Gop alla Camera dei rappresentanti, lui ufficializza il suo voto per Kamala Harris. Forse è per questo che alla Casa Bianca, ieri, le bandiere sono state issate a mezz’asta, ma senza annunci.

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Libero Quotidiano

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