“Il successo? Tutti lo vogliono, anche se nessuno lo ammette”

  • Postato il 17 aprile 2025
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  • Di Forbes Italia
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“Il passato non ti definisce, ti prepara a quello che verrà. Rimani nel presente”. La pensa così Adrien Brody, che ha appena vinto l’Oscar come miglior attore protagonista per The Brutalist, presentato al New York Film Festival, dove l’abbiamo incontrato. Nella sua carriera ha spesso scelto ruoli drammatici, come Il pianista di Roman Polanski, per cui aveva vinto un altro Oscar, a 29 anni (facendo di lui il più giovane vincitore in questa categoria), nel 2023.

La carriera di Adrien Brody

Ma nella vita vera è una persona solare e simpatica, un professionista estremamente serio, che valuta sempre con il cuore, prima di tutto, le sue scelte. “Mi diverte recitare nei blockbuster, perché è interessante essere parte di una grande produzione e, anche finanziariamente, sono una buona opportunità”, confessa. “Ma sono le storie, prima di tutto, che mi conquistano e i loro personaggi, in particolare quelli carichi di spessore, e non superficiali. Detesto la superficialità a tutti i livelli, come la mancanza di empatia e la cattiveria fine a se stessa”.

Adrien ha lavorato a tantissimi film, dai campioni d’incassi come King Kong a Predators, ai film d’essay come La sottile linea rossa di Terrence Malick. Ha preso parte a molti film del regista Wes Anderson, ora suo caro amico, tra cui The Grand Budapest Hotel e Asteroid City. E poi anche in Midnight in Paris di Woody Allen e Blonde, al fianco di Ana de Armas, nella parte di Marilyn Monroe. Nato nel Queens, Adrien ha vissuto per lungo tempo a Los Angeles, dove ha sfondato, ma adesso è tornato a Manhattan, dove è cresciuto.

Come ha deciso di partecipare al film The Brutalist?

La sceneggiatura, che il regista Brady Corbet ha co-scritto con la regista e sceneggiatrice norvegese Mona Fastvold, aveva la potenza di una storia vera, anche se non lo era. Mi piace studiare l’umanità e i singoli individui nella profondità della loro coscienza per comprenderne meglio il comportamento. Ho un approccio quasi psicologico alla recitazione. Volevo moltissimo questa parte fin dall’inizio, perché, in molti aspetti, mi ricordava quella della mia famiglia e le mie origini. La povertà di arrivare in un paese straniero, la delusione per un sogno americano che non è come si immaginava, ma diventa comunque il tuo. Non è stato comunque facile essere il protagonista, perché le scelte del cast parevano già concluse. Ma sono troppo attirato dalle storie che mi ispirano e sento divenire mie e non ho mollato. Non seguo regole particolari, è il puro istinto a guidarmi. Sapevo che ero io la persona giusta. Credo che il regista Brady sia stato stregato da questo mio selvaggio spirito avventuroso. Ho dovuto aspettare fino a dopo la pandemia, che ha rallentato la produzione, per ottenere la parte.

C’è una profonda relazione anche tra lei e l’attrice Felicity Jones, che interpreta magistralmente, la moglie del suo personaggio: lui l’aveva a lungo creduta morta a Dachau, fino a che lei gli scrive da un campo profughi dell’Armata Rossa, con la promessa di raggiungerlo poi in America non appena ottiene il visto.

Tra loro esiste un’intimità davvero speciale e io e Felicity volevamo questa traspirasse tra noi, come la forza dei personaggi di resistere insieme contro la malattia, il dolore, la dipendenza dalle droghe, i brutali ricordi che li tormentano, le nuove avversità che si trovano ad affrontare al gioco di un uomo ricco (recitato da un altrettanto bravissimo Guy Pearce, n.d.r.) solo dall’aspetto di filantropo, ma, consapevolmente forte della sua posizione di potere. Si trasforma in un individuo prepotente e senza scrupoli pur di ottenere il suo scopo, che si allontana dalla sfera puramente professionale. Sfocia in crudeli esternazioni xenofobe e classiste, e in un imperdonabile e inaspettato atto di violenza.

Il film è anche una profonda testimonianza al potere magico dell’architettura e alla dedizione a essa, come alla memoria del passato e della storia. Il suo personaggio progetta un istituto monumentale, ispirandosi ai campi di sterminio, dove lui e la moglie erano stati rinchiusi, per esorcizzare il trauma dell’Olocausto e la loro dolorosissima separazione.

Anche se non ho una formazione formale in architettura, ho letto moltissimo al riguardo e visto tante fotografie, che mi hanno ispirato nella mia formazione artistica. Ho sempre amato la varietà delle strutture e l’integrità delle forme e la creatività coraggiosa e, spesso, senza limiti, che la caratterizzano. Aver girato a Budapest The Brutalist, dove mia madre è nata e da dove è immigrata poi negli Stati Uniti, mi ha perfino dato una profonda connessione alle mie radici. E, ho scoperto una città e luoghi bellissimi e affascinanti, come i miei pensieri sono corsi indietro ai tempi della memoria. Erano i libri, i film, l’arte e anche l’architettura a ispirarmi fin dall’infanzia. E, i miei genitori (sua madre è la nota fotografa Sylvia Plachy e suo padre era un ex professore di storia e un pittore, n.d.r.) mi hanno di certo iniziato a tutto questo. Ho sempre creduto che l’arte avesse un potere curativo contro il male e i traumi.

Il regista, Brady Corbet, è stato un attore fin da bambino e ha recitato in importanti produzioni europee: in Funny Games di Michael Haneke e in Melancholia di Lars von Trier. Come è stato essere diretto da lui?

Avendo lavorato anche lui molto come attore, ha una profonda sensibilità. Capisce quando è il momento di lasciar libero l’attore di improvvisare e di lasciarlo addentrare nelle emozioni, che, in fondo, sono vere quando si è in una parte. Se la recitazione è finzione, per me è allo stesso modo un profondo specchio della realtà che la fa divenire vera. Per questo ci tengo che la mia recitazione sia sempre autentica, a costo di rimetterci pure io stesso (quando lavorò in Il pianista si era denutrito al punto tale da avere traumi per la vita pur di immedesimarsi completamente nel suo personaggio, n.d.r.). Per me, del resto, l’arte è una necessità, non una scelta. Non potrei fare altro nella vita.

Voleva avere successo quando cominciò e come è riuscito a raggiungerlo?

Tutti lo vogliono, anche se nessuno lo ammette. Specialmente come artista garantisce una sicurezza economica e la possibilità di continuare a fare quello che si ama. Ma per me era fin dal principio importante non essere riconosciuto per il mio aspetto fisico, ma per il mio valore. Mi piaceva pensare che potevo esprimere tutto il pathos dell’umanità nell’espressione del mio volto e del mio corpo: in uno sguardo, in un gesto, in un’emozione che riesco a trasmettere agli altri. Il segreto del mio successo? Di certo è stato la perseveranza, perché, se è vero che ho vinto un Oscar in una giovane età, era da tantissimo tempo che lavoravo e non avevo ancora raggiunto quel successo mondiale che ti cambia la vita. E, ho sempre creduto nei sogni. Fin da bambino credevo e amavo la magia e mi esibivo come prestigiatore. Mi chiamavano Amazing Adam. Frequentai una scuola di musica e arte drammatica e a tredici anni lavoravo a tempo pieno come attore.

Come la scelse Roman Polanski per Il pianista?

Mi notò lui in Harrison’s Flowers. È la storia di un famoso fotogiornalista che scompare e sua moglie, interpretata da Andie MacDowell, decide di non accettarlo e, armata solo di una macchina fotografica, va nei territori della guerra tra Croati e Serbi, dove si sono commesse terribili atrocità. Il pianista è di certo un film che ha segnato per sempre il mio percorso e me stesso come uomo.

Lei ha origini ebraiche: questi ruoli la devono avere toccato molto personalmente…

Mio padre ha origini ebraiche polacche, mia madre venne cresciuta come cattolica. Ma, prima di tutto, i miei antenati erano immigrati. Ho dedicato il mio Oscar per The Brutalist anche a mia madre e ai miei nonni che sono immigrati negli Stati Uniti dall’Ungheria durante la rivoluzione del 1956 e a mio padre, che ha contribuito a fondare la mia famiglia. Da lui ho appreso quanto sia importante conoscere la storia fin dall’antico passato che al presente, che la nostra, per cercare di non ripetere gli stessi errori… Troppo spesso la gente la dimentica

L’articolo “Il successo? Tutti lo vogliono, anche se nessuno lo ammette” è tratto da Forbes Italia.

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Forbes Italia

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