Il silenzio dell’uomo

  • Postato il 14 gennaio 2025
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  • Di Il Vostro Giornale
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Generico gennaio 2025

“Tutto ciò che può essere detto si può dire in modo del tutto chiaro; e su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, è quanto scrive Ludwig Wittgenstein nella prefazione alla edizione del 1918 del suo ben noto Tractatus Logico-Philosophicus. Ho sentito spesso utilizzare tale affermazione senza assolutamente aver compreso cosa intendesse il pensatore austriaco, niente di grave, specie se ricordiamo con un sorriso la parole di Mario Ruoppolo interpretato da Massimo Troisi nel suo film Il postino tratto dal testo di Antonio Skarmeta Il postino di Neruda: “La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve!” Resta il fatto che, poiché ora servono a me quelle parole, provo a rileggerle nel senso che mi è più prossimo per questo argomentare. Il silenzio che merita “ciò di cui non si può parlare” è ben chiarito, a mio modo di vedere, dalla breve poesia che recita: “ci svegliammo/ ed eravamo insieme/ così ci riaddormentammo/ fronte contro fronte/ per incontrarci/ in sogno”. Se le parole servono per comunicare, ebbene ci sono parole che confondono e falsificano la comunicazione, offrono un ingannevole e rassicurante strumento di condivisione che, in realtà, allontana. Non so se i protagonisti della situazione emotiva rappresentata dalla poesia avessero letto e compreso il pensiero di Wittgenstein, per certo sapevano intimamente che l’eventuale ricorso alla splendida espressione “ti amo” nulla avrebbe aggiunto a quanto profondamente stavano vivendo, anzi, lo avrebbe banalizzato, frantumato nella rappresentazione logica di ognuno di loro, di fatto scindendo quella meravigliosa unità di spirito e di percezione profonda che li rendeva unità meta temporale e meta spaziale. Insomma, solo il silenzio, la folle logica dei sogni, il coraggio di credere di poterne condividere uno, avrebbe permesso loro di dirsi davvero quell’amore che da “reciproco” era finalmente unità.

Certo, Wittgenstein probabilmente intendeva riferirsi anche ad altri ambiti più prossimi alla filosofia e alla prospettiva logica dalla quale la studiava e la produceva, così come perfetto sarebbe stato il suo argomentare come fondamento per un certo apofatismo, magari ce ne occuperemo in un prossimo incontro, per ora ritorniamo all’argomento dell’amore e mi sembra utile ancora la nostra letteratura, cito due grandissimi della poesia italiana, Dante e Leopardi. Nel sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” il poeta fiorentino scrive: ”Mostrasi sì piacente a chi la mira,/ che dà per li occhi una dolcezza al core,/ che ‘ntender non la può chi non la prova”; mentre il recanatese in A Silvia prova a comunicare il suo sentimento per la giovane ma si vede costretto a una resa che diviene celeberrimo verso: “Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno”. In entrambe i casi si sottolinea il limite della parola, nei versi danteschi la dolcezza provata dal poeta sembra poter essere intesa dal lettore solo nel caso in cui questi l’avesse provata in prima persona, in verità la questione è un poco più complessa, infatti, anche nell’ipotesi che lettore e poeta avessero vissuto la medesima esperienza, ovviamente non necessariamente con la giovane Beatrice, eppure anche questo aspetto non è così marginale, non è assolutamente certo, e ancor meno dimostrabile, che entrambe abbiano tradotto la stessa percezione nel medesimo sentimento che, di conseguenza, non sarebbe “’nteso” ma solo convenzionalmente condiviso. Anche Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche del 1953 afferma che il linguaggio non si acquisisce sulla scorta di “definizioni ostensive”, cioè la parola non la si apprende sulla scorta di un abbinamento con quanto rappresenta e questo, necessariamente, diviene ancor più impraticabile nel caso di esperienze emotive; un conto è indicare un castagno e pronunciarne il nome, altro è indicare “la dolcezza che gli occhi innamorati suscitano al cuore dell’amante”.

Il verso del giovane recanatese, invece, suggerisce l’impossibilità della parola, “lingua mortal”, che sia in grado di “dire ciò che provava in seno”. Intanto l’affermazione esplicita il convincimento che ogni mortale sia in grado di esperire emozioni sovra umane, immortali, tanto che la sua capacità lessicale, frutto di una molto più limitata e “mortale” creatività logico linguistica, mai potrebbe generare termini adeguati a una simile comunicazione e, di conseguenza, denuncia l’impossibilità di comunicare, attraverso strumenti convenzionali, emozioni che oltrepassano i limiti di competenza della comunicazione verbale e, forse, di ogni comunicazione. La questione posta da Wittgenstein, infatti, la si ritrova nella poesia leopardiana proprio perché ogni singola parola non riveste un significato direttamente collegabile a una “esperienza oggettiva”, prima di tutto perché per definizione l’esperienza presuppone un soggetto che la viva ed è, pertanto, soggettiva, poi perché ogni parola assume un significato solo in relazione alle altre che la accompagnano, alla cultura che le rende mutevoli nel tempo e nello spazio, al panorama contingente, alla specifica situazione, addirittura al particolare soggetto che la impiega. Un grande contemporaneo di Wittgenstein, mi riferisco a Heidegger e in particolare alla sua seconda stagione filosofica, si occupa della questione del linguaggio proprio affrontando i problemi che abbiamo intercettato, seppure in una diversa prospettiva. Nei saggi degli anni cinquanta arriverà a concludere che la parola non deriva dall’esperienza ma è il modo di fare esperienza, va però precisato che il filosofo tedesco intendeva la parola, per dirla con il commento di Vattimo, come poesia e come invenzione, una parola intensamente poietica e, pertanto, transeunte e inverata dalla cultura e dal soggetto che la utilizza.

Insomma, la parola è figlia di un intreccio di processi e di relazioni tra i soggetti che la pronunciano, le culture che la determinano, i contesti che la trasformano, così che ogni individuo sviluppa il proprio bagaglio lessicale anche in relazione al contesto socio culturale nel quale vive e, con il medesimo bagaglio, si offre “al mondo” e si offre “il mondo” determinando chi saranno sia l’uno che l’altro. Non si tratta solo e soprattutto di oggetti e quotidiane fatiche pratiche, piuttosto della creazione dell’universo interiore di ognuno, ciò che rende ogni essere umano una sorta di diveniente creazione artistica che è un vero e proprio work in progress nel quale il soggetto è, contemporaneamente, anche oggetto di se stesso. In questo perenne panta rei che ci contraddistingue è più chiaro, credo, il senso delle parole del logico austriaco, ciò “di cui non si può parlare” è ciò che di più sacro ci abita e ci rende irripetibili e, in una tragica misura, soli. Una volta compresa la nostra solitudine, però, diviene possibile amarla e rispettarla in noi e in ogni meraviglioso spettacolo creativo che impareremmo a riconoscere in ogni altro da noi. Certo, ci sarebbe molto più silenzio, ma questo credo sia preferibile al nulla della “chiacchiera” e della ingannevole pseudo informazione dei social, alle amicizie facebookiane che nulla hanno a che fare con l’emozione e la costruzione di rapporti reali, al frastuono del mercato nel quale è impossibile distinguere la parola del saggio da quella dell’imbecille con evidente vantaggio di quest’ultimo. Il silenzio dell’uomo è sano e utile quando è conseguente al tempo del pensiero, alla ricerca di un messaggio profondo, alla volontà di darsi l’opportunità dell’ascolto; diviene devastante quando ci scordiamo che siamo interiormente una sorte di valle dell’eco e che l’unico silenzio è segno di incapacità di ridare voce alle nostre radici più profonde. Parlare dovrebbe sempre essere un evocare e un suggerire che il dire è solo un’altra faccia del silenzio, è figlio di un linguaggio utile per ciò che “può essere detto” e che, pertanto, “si può dire in modo del tutto chiaro”, ma ciò di cui abbiamo urgenza di condivisione è proprio ”ciò di cui non si può parlare” e di cui, secondo Wittgenstein “si deve tacere”; certo raccogliendo il suo suggerimento avremmo molto più silenzio, ma è necessario ricordare che siamo dotati di orecchie per ben altra voce ma che oramai non sappiamo più utilizzarle.

Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli.

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