Il reato di femminicidio? Inutile aggiungere nuove norme
- Postato il 29 marzo 2025
- Di Panorama
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Nonostante sia sempre stato progressista e di sinistra, Giovanni Fiandaca s’è inalberato. L’insigne giurista ha letto il testo del disegno di legge governativo che vorrebbe introdurre nel Codice il nuovo reato di «femminicidio», punendolo con l’ergastolo, e ha scritto: «Ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli, è un insulto ai princìpi di un diritto penale costituzionalmente orientato». Poi ha addirittura invitato i suoi colleghi docenti universitari a scioperare «contro l’ennesima strumentalizzazione politica del diritto penale».
E pensare che il governo ha presentato la proposta proprio in coincidenza con l’8 marzo, festa progressista della Donna, e ha scelto un titolo che ha le connotazioni tipiche della cultura iper-femminista e «woke»: la destra, infatti, non è solita apprezzare il termine «femminicidio» e anzi lo contesta (con molte ragioni) perché ha un contenuto fortemente ideologico e perché attribuisce a ogni uccisione di donna – ma anche ai maltrattamenti – un’inevitabile motivazione di genere e un’origine culturale paternalistica. E non sempre è così.
Resta il fatto che il governo, su proposta dei tre ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi ed Eugenia Roccella, ha proposto un nuovo articolo del Codice penale che, se approvato, punirà con l’ergastolo «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione, o di odio verso la persona offesa in quanto donna, o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà, o comunque l’espressione della sua personalità». Il testo è molto chiaro, non c’è che dire. Ma lo sono anche le possibili obiezioni. La prima è che nessuna pena, anche la più dura, disincentiva i reati, tant’è che in America nemmeno la sedia elettrica riesce a frenare il numero degli omicidi. Molti giuristi sostengono poi che per i giudici non sarà affatto facile individuare le motivazioni culturali e ideologiche e di genere alla base dell’uccisione di una donna. La critica più efficace al nuovo reato, però, sta nel fatto che è inutile inserirlo nel Codice penale perché, in massima parte, è già considerato coperto. Oggi l’articolo 577 prevede che l’omicidio sia punito con l’ergastolo se è commesso «contro il coniuge anche legalmente separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona stabilmente convivente con il colpevole, o a esso legata da relazione affettiva». Quindi l’uccisione di una moglie, di una convivente e di una fidanzata è già punita con l’ergastolo. Pena che l’articolo 576, al quinto comma, stabilisce se l’uccisione viene commessa da chi, maschio o femmina, abbia perseguitato la sua vittima.
Marco Pelissero, docente di diritto penale a Torino, riconosce poi che è vero che al momento il Codice non punisce proprio con l’ergastolo chi uccide un ex coniuge (maschio o femmina), un ex fidanzato e un ex convivente, però ricorda che in questi tre casi la pena è molto alta perché va dai 24 ai 30 anni di reclusione, e che una consolidata giurisprudenza impone al giudice stringenti limitazioni nel riconoscere circostanze attenuanti. Pelissero conclude: «Ma se già oggi le sanzioni sono elevatissime, che senso ha proporre la nuova fattispecie?».
Ed è vero che il nostro ordinamento, per l’omicidio come per altri reati, prevede che i giudici possano applicare ai singoli casi circostanze aggravanti (per esempio i «futili motivi») e attenuanti (per esempio il fatto che l’imputato sia incensurato), che finiscono per aumentare o ridurre la pena. Ma il sistema delle aggravanti e delle attenuanti risponde a un fondamentale principio di civiltà giudiziaria, che un domani verrà inevitabilmente applicato anche al reato di «femminicidio», se sarà introdotto nel Codice. Quindi non è affatto certo che la pena dell’ergastolo sarebbe automatica e garantita.
Certo, nessuno può negare l’esistenza e la gravità del fenomeno. Le donne uccise sono tante, anche se nell’ultimo decennio i dati del ministero dell’Interno descrivono un calo tendenziale dei «femminicidi», dai 179 del 2013 ai 113 del 2024. Ma non è detto che il nuovo articolo del Codice riesca cambiare le cose. In realtà, non è detto nemmeno che riesca a passare un vaglio di costituzionalità: l’Unione delle camere penali, che raggruppa gli avvocati penalisti, ritiene infatti che il «femminicidio» potrebbe facilmente finire al vaglio della Consulta per violazione del principio di uguaglianza (l’articolo 3 della Costituzione stabilisce che «tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione…), in quanto «potrebbe determinare una disparità di trattamento rispetto ad altre vittime di omicidio, anch’esse motivate da discriminazione o da odio».
Gian Domenico Caiazza, che dei penalisti è stato il presidente, si dice certo che il nuovo reato non passerebbe al vaglio della Corte costituzionale: «È come sostenere che un omicidio per motivi di genere femminile è più grave dell’omicidio del figlio gay da parte del padre che se ne vergogna, o dell’omicidio di un transessuale…».