Il Qatar avrebbe pagato per insabbiare le accuse di molestie del Procuratore Capo della Corte penale internazionale Karim Khan

  • Postato il 7 novembre 2025
  • Di Panorama
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Secondo quanto rivelato dal Guardian, il governo del Qatar avrebbe versato ingenti somme di denaro a una società di intelligence privata con sede a Londra per orchestrare una campagna di delegittimazione contro la donna che ha accusato di molestie sessuali il procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI), Karim Khan. Due strutture specializzate in operazioni riservate, la Highgate e un’altra organizzazione satellite, avrebbero raccolto informazioni personali sulla presunta vittima e sui suoi familiari, incluso il figlio minorenne. Nei documenti ottenuti dal quotidiano britannico, i dirigenti della Highgate ammettono di aver agito su mandato di un «paese cliente» identificato nei file interni come «Paese Q», una formula che, secondo diverse fonti, indicherebbe chiaramente Doha. Gli investigatori privati hanno persino ricevuto istruzioni di non nominare mai il Qatar nei rapporti scritti, per non compromettere la copertura dell’operazione.

Il gruppo avrebbe cercato di creare un nesso artificiale tra l’accusatrice e lo Stato di Israele, allo scopo di screditarne la reputazione e insinuare l’idea di una cospirazione contro Khan. La donna, intervistata dal Guardian, ha definito le azioni dell’organizzazione «inquietanti» e «devastanti», affermando che l’idea che «società private di intelligence abbiano ricevuto l’ordine di perseguitarmi è tanto incomprensibile quanto straziante». La Highgate, dal canto suo, nega ogni addebito, ma l’intera vicenda evidenzia la vulnerabilità delle istituzioni giudiziarie internazionali di fronte all’ingerenza di potenze straniere.

L’accusatrice principale è un avvocato interno alla CPI che sostiene di aver subito comportamenti sessuali coercitivi da parte di Khan tra il 2023 e il 2024. Pochi mesi dopo, nell’agosto 2025, una seconda donna — che ha chiesto di restare anonima — ha presentato una denuncia simile. Quest’ultima ha raccontato al Guardian che Khan l’avrebbe ripetutamente molestata durante il suo tirocinio all’Aia nel 2009, descrivendo una condotta «implacabile» e abusiva. Secondo la testimonianza, il procuratore avrebbe sfruttato la propria posizione per costringerla a recarsi nella sua abitazione privata, dove sarebbe stata toccata e baciata contro la sua volontà, tentando poi di convincerla a nuovi contatti fisici.

L’indagine disciplinare avviata contro Khan, inizialmente limitata alla prima denuncia, è stata ampliata per includere anche la seconda testimonianza. Ma il comportamento successivo del procuratore ha sollevato nuove perplessità. Il Wall Street Journal ha infatti ricordato che Khan annunciò la richiesta di mandati di arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’allora ministro della Difesa Yoav Gallant appena tre settimane dopo la pubblicazione delle prime accuse di molestie nei suoi confronti. Una coincidenza che, secondo diversi analisti, suggerisce un tentativo di distrarre l’opinione pubblica e recuperare credibilità politica, presentandosi come il simbolo di una giustizia inflessibile contro Israele. Per alcuni osservatori, si tratta di una strategia tanto cinica quanto rivelatrice: Khan, travolto dalle accuse e con la propria reputazione compromessa, avrebbe cercato rifugio dietro la maschera del giustizialismo ideologico, colpendo un obiettivo politicamente sensibile per compiacere i suoi sponsor e placare le pressioni provenienti dal mondo arabo. La professoressa Anne Bayefsky, direttrice del Touro Institute on Human Rights and the Holocaust e presidente di Human Rights Voices, ha commentato ad Arutz Sheva – Israel National News che «Khan sembra tentare di salvarsi proiettando sul diritto internazionale lo stesso schema di pensiero perverso e antisemita che ha caratterizzato molti dei suoi atti pubblici».

In questo quadro, il Qatar appare come il vero regista occulto. Da anni Doha utilizza una combinazione di finanziamenti, corruzione diplomatica e operazioni di influenza per rafforzare la propria immagine e proteggere i gruppi armati che sostiene, tra cui Hamas. La sua capacità di infiltrarsi in organizzazioni internazionali — dalle agenzie ONU ad alcune ONG legate ai diritti umani — gli consente di orientare agende e decisioni, spesso a scapito della trasparenza e della neutralità. Il caso Khan, con i pagamenti occulti a una società britannica incaricata di screditare le vittime, ne rappresenta un esempio emblematico. Il procuratore, oggi temporaneamente sospeso dal suo incarico, continua a proclamarsi innocente. Il suo team legale sostiene che «non ha mai commesso alcuna forma di molestia» e che la documentazione agli atti «smentisce le accuse». Tuttavia, la difesa di Khan non basta a dissipare il sospetto di un sistema di potere in cui la giustizia internazionale appare manipolata da interessi politici e finanziari, dove perfino il tribunale dell’Aia può diventare strumento di propaganda.

Dietro l’immagine del magistrato imparziale, si delinea quella di un funzionario ambiguo, sospeso tra ambizione personale, vulnerabilità etica e rapporti opachi con governi stranieri. E dietro di lui, un Paese come il Qatar, che grazie alla sua ricchezza energetica e a una rete di relazioni costruite a colpi di denaro e favori, sembra ormai in grado di controllare non solo le piazze della diplomazia, ma anche le aule della giustizia internazionale. Una verità scomoda che mette in discussione la credibilità stessa della Corte penale internazionale e solleva una domanda inevitabile: chi giudica davvero chi, nel grande teatro della giustizia globale?

Autore
Panorama

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