Il nuovo impero cinese: Xi guida la sfida globale contro l’Occidente

  • Postato il 20 settembre 2025
  • Di Panorama
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Se Ronald Reagan fosse ancora vivo, di sicuro avrebbe già creato una delle sue immaginifiche definizioni e parlerebbe di un «Nuovo impero del Male». È davvero un impero quello che sta mettendo in piedi la Cina di Xi Jinping. In pochi anni, Pechino ha attratto nella sua sfera d’influenza la Russia, l’Iran e la Corea del Nord, e con una forte accelerazione – proprio nelle ultime settimane – ha avvicinato a sé l’India e una lunga serie di Paesi «satelliti»: un risultato clamoroso, che nella Guerra Fredda non era mai riuscito all’Unione sovietica, dal 1947 al 1991 nemico pubblico numero 1 dell’Occidente.

Tra la fine d’agosto e il 3 settembre, la Repubblica popolare ha messo in scena due grandi rappresentazioni di questo nuovo potere geopolitico. La prima nel vertice di Tianjin dell’Ocs, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, dove Xi ha convocato il dittatore russo Vladimir Putin, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian e il leader nordcoreano Kim Jong-Un, più l’indiano Narendra Modi e i vertici di Pakistan, Turchia, Arabia Saudita e altri 27 governi non occidentali.

La seconda manifestazione è stata la parata militare di Pechino per l’ottantesimo anniversario della vittoria sul Giappone, la più tecnologica e minacciosa di sempre, dove Xi ha voluto ancora una volta accanto a sé i leader di Russia, Iran e Corea del Nord, più altri 28 capi di Stato orientali e africani, dall’Armenia allo Zimbabwe. Il solo premier occidentale presente era lo slovacco Robert Fico, dal 2024 fedele alleato della Cina.

In entrambi i casi, Xi ha lanciato un duro monito a quello che un tempo veniva chiamato «il mondo libero», destinando parole aggressive in particolare al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Dal palco innalzato in piazza Tienanmen a Pechino, dove s’è mostrato nella tipica uniforme paramilitare verde di Mao Ze Dong, Xi ha detto che «il mondo oggi si trova come non mai di fronte a una scelta tra la pace e la guerra» e che «nessun bullo potrà intimidire la Cina e i suoi alleati». A Tianjin ha dichiarato che «l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai si oppone all’egemonismo americano e alla sua politica della forza».

Dai due palcoscenici, inquadrato dai riflettori di tutto il mondo, Xi non soltanto ha voluto dare un’inedita manifestazione di potenza, ma ha lanciato le fondamenta di un «nuovo ordine mondiale» made in China. A Tianjin, indicando ai suoi alleati un programma di ampio respiro economico, il dittatore cinese ha detto anche che bisogna creare «una nuova governance globale» e «un sistema internazionale più equo», mettendo in campo «una nuova Banca di sviluppo mondiale», con l’obiettivo di aggirare il sistema monetario fin qui basato sul dollaro statunitense. Ai suoi compagni di strada, vecchi e nuovi, ha promesso un lampo d’investimenti da quasi 2 miliardi di euro. Li ha blanditi e vezzeggiati; come sempre, li ha anche intimiditi. È comunque riuscito ad attrarli a sé, e a esprimere un’immagine di unità e potere.

Dopo 12 anni ininterrotti di governo, Xi è riuscito soprattutto a stringere le mani e un’intesa mai vista perfino con un antico nemico della Cina come il premier indiano Narendra Modi, uno che non metteva piede in Cina almeno dal 2018 e che ancora un anno fa protestava per lo stillicidio degli sconfinamenti dell’Esercito popolare di liberazione nelle regioni tibetane (nel giugno 2020 anche con un centinaio di morti), chiedendo nuove forniture militari agli Stati Uniti.

A sospingere Modi nelle braccia di Pechino, in effetti, è stato un improvvida mossa di Trump. Un errore di prospettiva compiuto in agosto, quando la Casa Bianca ha imposto all’India dazi del 50 per cento «per punirla dell’acquisto di petrolio russo». È vero che dal maggio 2023, un anno dopo l’invasione russa dell’Ucraina, New Delhi s’è messa a comprare da Mosca due milioni di barili al giorno, per un totale a oggi di 111 miliardi di euro, e che le forniture a basso prezzo di Gazprom valgono ormai più di un terzo delle importazioni indiane di greggio. Ma con la sua decisione The Donald ha cancellato in un colpo dieci anni della saggia strategia americana, che puntava a fare dell’India il cardine del contenimento militare ed economico della Dragone nel Pacifico.

Non è ancora certo che Modi abbia davvero «saltato il fosso» e che sia pronto a passare armi e bagagli sulla sponda cinese del mondo. Il 6 settembre, il leader indiano è stato ricevuto con tutti gli onori alla Casa Bianca, dove ha dichiarato che «tra Delhi e Washington c’è una partnership strategica, positiva e proiettata al futuro». Diciamo che, per ora, Modi gioca su due tavoli. Resta il fatto che il suo avvicinamento a Pechino è una mossa inquietante per gli Usa e anche per l’Europa, che in questo campo ha un’assai limitata forza politica e praticamente non tocca palla.

Un taglio degli storici legami con New Delhi, per l’Occidente, sarebbe un disastro. L’economia indiana è la quinta al mondo, e la sua crescita è da anni la più rapida, tanto che nel 2022 ha sorpassato la Gran Bretagna e quest’anno – con un Pil vicino ai 4.300 miliardi di dollari – si prepara a battere anche il Giappone. Dall’anno scorso, inoltre, il Paese ha il primato degli abitanti: sfiorando quota 1,5 miliardi, ha superato la Cina, e oggi i due giganti assieme valgono il 35 per cento della popolazione terrestre. È una massa critica, sotto forma sia di forza-lavoro, sia di potenziale carne da cannone, che è un altro formidabile elemento di forza.

Trump, nel frattempo, non sta facendo alcun passo in avanti nel disperato tentativo di strappare la Russia all’alleanza strategica con la Cina. Né l’ostilità che in febbraio aveva esibito alla Casa Bianca nei confronti di Volodymyr Zelensky, né la drastica frenata impressa al sostegno militare all’Ucraina, né il tappeto rosso e le mille blandizie riservate poi a Putin alla metà di agosto durante l’incontro di Anchorage, in Alaska, sembrano aver avuto molti effetti.

Anzi. Un giorno prima della parata militare a Pechino, il 2 settembre, il dittatore russo e l’omologo cinese hanno solennemente confermato «l’accordo totale e senza limiti» che avevano firmato il 4 febbraio 2022, venti giorni esatti prima dell’attacco russo a Kiev. Quell’intesa, che è stata uno dei grandi capolavori strategici di Xi, lega da allora i due Paesi in ogni campo, dalla cultura all’energia, fino alla politica internazionale e alla difesa. È un «patto d’acciaio», dichiaratamente e programmaticamente contrario all’Occidente e alla Nato. E ancor più dell’acciaio pare difficile da sciogliere.

A produrre la iattura dell’abbraccio tra Mosca e Pechino, dopo 70 anni nei quali la politica estera statunitense aveva fatto di tutto per tenere distanti tra loro le due superpotenze, erano stati i gravi errori del predecessore di Trump, Joe Biden. Fin dal suo ingresso alla Casa Bianca, nel gennaio 2020, il presidente democratico aveva adottato una linea di contrasto diretto, se non quasi d’inimicizia personale nei confronti di Putin, mostrando poi totale incapacità di governo, di reazione e di deterrenza. Due difetti erano emersi soprattutto in altrettanti passaggi cruciali: il disastroso abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe americane, nell’agosto 2021, e l’incertezza davanti alle grandi manovre russe ai confini dell’Ucraina nel dicembre di quello stesso anno, due mesi prima dell’attacco.

Ma la Russia e l’India sono soltanto parte del problema. Sullo scacchiere mondiale, in questa metà di 2025, si sta giocando una partita di Risiko colossale, da far tremare i polsi. È una corsa con cui Pechino cerca di conquistare il Sud del mondo. Xi sta trascinando nella sua sfera d’influenza decine di Stati dell’Oriente e dell’Africa, tra i quali molti erano tradizionalmente alleati degli Stati Uniti, per esempio il Sud Africa. Il Dragone utilizza quello che un tempo gli americani definivano il loro «soft power», e cioè una potente forza attrattiva basata su un accorto mix di relazioni diplomatiche, spesso muscolari, di scambi economici e di forniture tecnologiche e militari.

Il segretario comunista, oggi, dispiega la sua strategia attraverso l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai e attraverso l’alleanza dei Brics. Lanciata nel 2001 quando il potere era nelle mani del presidente «liberale» Jiang Zemin, l’Ocs era nata con l’obiettivo di creare un sistema di cooperazione nella sicurezza tra i governi dell’Asia centrale. Nel corso del tempo, e in particolare da quando Xi è divenuto presidente nel 2013, l’Ocs è andata via via ampliandosi fino a comprendere una serie di Stati nel Caucaso, in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale. Oggi raggruppa Cina, India, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Russia, Tagikistan, Uzbekistan e Iran, ma coinvolge come «partner» anche altri 17 Paesi, tra i quali Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Cambogia, Kuwait, Nepal, Qatar, Emirati Arabi Uniti e perfino le Maldive. Rappresentanti di tutti questi Stati erano presenti nell’ultimo vertice di Tianjin.

È evidente che l’alleanza, sempre più a trazione cinese, funziona come una grossa calamita verso Pechino. Anche il potere meno «soft» della Cina, del resto, incute timore. A partire dal 2014, la Repubblica popolare è andata dotandosi di una flotta navale che ormai, non soltanto in quel quadrante del mondo, sovrasta di molte lunghezze quella americana: ne sanno qualcosa i governanti di Taiwan, che da tre anni quasi ogni giorno subiscono minacciose prove di forza e di accerchiamento, e quelli delle Filippine, che di mese in mese cercano di arginare le continue incursioni delle motovedette cinesi nei suoi atolli, e i ripetuti tentativi di conquistare isolette, sempre più vicine a Manila. Pechino, poi, si fa forte di una spesa militare che da tempo continua ad aumentare del 7-8 per cento ogni anno, e ha appena deciso il raddoppio dell’arsenale nucleare.

L’altro strumento di attrazione è l’organizzazione dei Brics, che dal 2009 lega economicamente tra loro Cina, Brasile, Russia, India e Sud Africa. Nel 2024 hanno aderito anche Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran e altri Paesi africani. Nell’ultima riunione di Rio de Janeiro, in luglio, è stata adottata una mozione congiunta che impegna le banche centrali degli Stati aderenti a creare «un sistema in cui gli scambi commerciali non debbano utilizzare il dollaro». Una vera dichiarazione di guerra finanziaria, che ingiustamente è passata semi-inosservata.

Insomma, mentre l’Occidente guarda altrove, distratto e diviso, la Cina di Xi Jinping cerca di riunire il Sud del mondo per farne uno strumento di egemonia. È davvero un Nuovo impero del Male, come potrebbe dire un Reagan, ma anche un’alleanza ben diversa dal Patto di Varsavia per l’Unione sovietica: perché Pechino è un avversario che non gioca (soltanto) sulla forza e sulla conquista militare, ma punta molto sull’inclusione. E stavolta potrebbe anche vincere.

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Panorama

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