Il modismo dell’inclusività che esclude

  • Postato il 20 febbraio 2025
  • Editoriale
  • Di Paese Italia Press
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di Giuseppe Arnò *

Un tempo nobile vessillo di giustizia sociale, oggi spauracchio da barzelletta: la cultura woke sembra aver percorso l’intera parabola dell’ascesa e della caduta a velocità supersonica. Nata per rendere il mondo più equo, ha finito per trasformarsi in una sorta di tribunale inquisitorio, dove il minimo scostamento dall’ortodossia del momento equivale a una condanna senza appello. Negli Stati Uniti il termine è ormai un insulto da talk show, un sinonimo di fanatismo iper-moralista con una spolverata di censura creativa. In Italia, invece, il fenomeno sembra ancora godere di una certa considerazione – o almeno di generosi finanziamenti pubblici. Ma facciamo un passo indietro.

Da virtù a vizio: cronache di un fenomeno che si è preso troppo sul serio

C’era una volta il “wokeness”, la sacra consapevolezza delle ingiustizie sociali. Poi è arrivata la politica, Donald Trump l’ha bollata come l’ideologia dei “losers”, e la parabola discendente ha avuto inizio. Il termine è passato dall’essere un simbolo di coscienza civile a un manifesto dell’intolleranza con pretese pedagogiche.

Negli USA, gli stessi giganti della Silicon Valley che fino a ieri dispensavano sermoni sull’inclusività hanno cominciato a prendere prudentemente le distanze. La nuova moda è sembrare neutrali, perché il vento sta cambiando e, si sa, il capitalismo si adatta più in fretta delle ideologie.

Curiosamente, il ritorno a un’etica meno woke non è stato privo di ironie. Donald Trump, durante il suo secondo mandato, ha evocato il passato eroico dell’America con tanto di promesse di espansionismo e industrializzazione. “Renderemo l’America grande di nuovo, trivellando di nuovo!”, ha esclamato, con Elon Musk al suo fianco che applaudiva sognando bandierine a stelle e strisce su Marte.

Nel suo discorso “in bianco e nero” – maschi maschi, femmine femmine, niente sfumature – Trump ha sintetizzato perfettamente il rifiuto delle complessità che la culturawoke ha cercato di affrontare, anche se talvolta con maldestra presunzione. E così, come in una tragicommedia, mentre una parte del mondo tenta di cancellare il passato con colpi di bianchetto ideologico, l’altra rispolvera nostalgicamente i decenni d’oro in cui tutto era più semplice – o almeno, così sembra nei racconti elettorali.

Inclusività selettiva: il paradosso del wokismo

In teoria, la cultura woke mirava a includere tutti. In pratica, ha sviluppato un raffinato talento per l’esclusione. La caccia ai peccatori del passato ha portato a riscritture di classici, a riabilitazioni postume e a vere e proprie purghe culturali, con l’unico risultato di rendere il dibattito ancora più sterile e manicheo.

Roma Caput Mundi (del finanziamento woke)

Mentre oltre oceano il fenomeno sembra avviarsi a una pensione anticipata, in Italia il wokismo trova nuova linfa, e soprattutto nuovi fondi. A Roma, ad esempio, il sindaco Gualtieri ha stanziato 240mila euro per progetti sull’affettività nelle scuole. Nulla di male, certo. Peccato che le stesse scuole abbiano infiltrazioni d’acqua, muri che si sbriciolano e strutture che farebbero invidia alla scenografia di un film post-apocalittico. Ma l’importante è che i bambini sviluppino la giusta sensibilità, anche se devono farlo sotto un tetto che potrebbe crollare da un momento all’altro.

Il fascino discreto della polarizzazione

Il vero problema non è tanto la cultura woke, ma l’incapacità collettiva di affrontare qualunque tema senza trasformarlo in una guerra di religione. Da una parte i paladini dell’inclusività totalitaria, dall’altra i nostalgici del “si stava meglio quando si stava peggio”. In mezzo? Il nulla. Perché il compromesso e il buon senso, oggi, non fanno notizia.

E così, tra censure, anatemi e financo finanziamenti strategici, il mondo continua a girare. Forse nel verso giusto, forse no. Ma, come direbbe qualcuno, tutto scorre.

Giuseppe Arnò direttore de La Gazzetta italo brasiliana

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