Lo scorso 13 luglio è stata annunciata la scoperta del più imponente scontro tra buchi neri mai registrato dalla rete internazionale di rivelatori di onde gravitazionali LVK (LIGO Virgo KAGRA). L'evento è stato osservato il 23 novembre 2023 ed è stato battezzato GW231123. Si trattava di due giganti di circa 100 e 140 masse solari, che si sono fusi tra loro per produrne uno con massa oltre 225 volte superiore a quella del Sole. Un record, ma non solo.... Scontro tra titani. La cosa più sorprendente è che in prima approssimazione, stando alle conoscenze "standard" attuali, nessuno dei due buchi neri iniziali avrebbe dovuto esistere. Non è un caso isolato. Anche nello scontro GW190521, uno dei buchi neri di partenza aveva una massa di 85 masse solari, troppo grande da spiegare in base ai modelli di evoluzione stellare.
E perfino i telescopi spaziali Webb e Chandra hanno trovato un buco nero "impossibile" come UHZ1, di tipo molto diverso ma sempre troppo grande (decine di milioni di masse solari) per essersi formato con i meccanismi noti quando l'universo aveva solo 470 milioni di anni (ora ne ha 13,8 miliarid). Da dove arrivano, allora, questi giganti? Che cosa è avvenuto esattamente nello scontro da poco reso noto? E che cosa lega i buchi neri rilevati con le onde gravitazionali a quelli osservati dai telescopi spaziali all'alba dei tempi?. Come trottole ultraveloci. Cominciamo a inquadrare bene i dettagli dell'evento GW231123. «Questo scontro è interessante per due motivi», commenta Gabriele Franciolini, fisico teorico al Cern di Ginevra che si occupa di buchi neri. «Il primo sono le masse in gioco, il secondo la loro rotazione». Prima dell'impatto, infatti, i due oggetti ruotavano vorticosamente ciascuno attorno al proprio asse all'80-90% della velocità massima, cioè a circa 400mila volte la rotazione terrestre. Il dato principale da capire sono le masse. «Sono all'interno di quello che viene chiamato mass gap, un range in cui è difficile spiegare con i modelli astrofisici come si possano formare», dice Franciolini.
Normalmente, i buchi neri si formano al termine della vita di stelle molto più grandi del Sole. Una volta esauriti gli elementi leggeri che sostenevano le reazioni di fusione, la stella "si spegne" e collassa sotto il proprio peso. Si genera così un nucleo compatto sul quale il gas in caduta rimbalza violentemente, generando un'esplosione detta supernova. Se la stella iniziale è abbastanza grande, al centro rimane un buco nero. Questo è il meccanismo assodato con cui si formano buchi neri con massa che va da alcune masse solari ad alcune decine di masse solari.. Visualizzazione dell'evento GW231123 e delle onde gravitazionali prodotte (Video © I. Markin/Potsdam University, H. Pfeiffer/Max Planck Institute for Gravitational Physics, T. Dietrich/Potsdam University and Max Planck Institute for Gravitational Physics).. Scontri a ripetizione. Dunque è improbabile che i buchi neri osservati si siano formati per evoluzione stellare, a meno che non si tratti di situazioni molto particolari e molto rare. Quali sono le ipotesi più plausibili, allora? «La prima è che siano il risultato di scontri precedenti», spiega Franciolini. «In questo scenario, detto "gerarchico", inizialmente si sono formati buchi più leggeri, che però si trovavano in ambienti molto densi di stelle e altri buchi neri. Da uno o più scontri successivi, si sarebbe arrivati a quelli attuali».
Anche l'elevata velocità di rotazione osservata è coerente con questo scenario, perché quando due buchi neri si scontrano, lo fanno cadendo a spirale l'uno sull'altro, e il buco nero finale ne eredita la rotazione complessiva per la legge della "conservazione del momento angolare". «Il problema è capire se questi processi possono avvenire abbastanza frequentemente da spiegare un evento come GW231123», conclude Franciolini.. Più dati. Per arrivare a una risposta, è utile avere sempre più osservazioni e studiare le statistiche degli scontri al variare di tutte le possibili masse di partenza. Per questo sono preziosissimi i dati dei run di osservazione della rete LVK, come gli ultimi rilasciati il 26 agosto, relativi al periodo 24 maggio 2023 - 16 gennaio 2024 (prima metà del quarto run, O4a). «Il catalogo precedente conteneva una settantina di eventi, ora sono intorno a 220», precisa Franciolini. . Gigante precoce. In attesa di risposte da studi che, comunque, richiederanno anni, il mistero si infittisce se si va a guardare ai dati astronomici, e in particolare alle osservazioni del James Webb Space Telescope, che – con il suo sguardo a infrarossi – sta scrutando l'universo a distanze mai viste prima, nel periodo in cui si formarono le prime stelle e le prime galassie. «Si stanno vedendo galassie più massicce, e in maggior numero, di quello che si pensava in base alla teoria standard di formazione delle strutture. E si stanno osservando anche buchi neri più massicci del previsto». L'esempio più emblematico è UHZ1, che ha una massa compresa tra 10 e 100 milioni di masse solari e risale a quando l'universo aveva appena 470 milioni di anni. In questo caso, si tratta di "bestia" diversa da quelle di cui abbiamo parlato finora, perché la massa è molto maggiore.
Ma il mistero è lo stesso: come è nato UHZ1? Se si fosse formato con le modalità note, cioè attraverso la formazione di buchi neri stellari che poi si scontrano tra loro e inglobano altra materia, ci sarebbe voluto un tempo più lungo dell'età dell'universo all'epoca, a meno che l'accrescimento non fosse avvenuto a ritmi veramente forsennati. Si è ipotizzato allora che questo gigante si sia formato per collasso diretto di una grande quantità di materia, senza passare per la formazione di supernove. «Il collasso diretto di una massa di questo tipo, però, può avvenire solo in condizioni molto particolari», osserva Franciolini. «La massa dovrebbe essere molto simmetrica e omogenea, altrimenti si frammenterebbe e ci si ritroverebbe con tanti buchi neri più piccoli». Guarda caso, questi buchi neri avrebbero proprio una massa di circa 100 masse solari.
. Fluttuazioni violente. Di fronte a queste incertezze, non stupisce che i teorici siano a caccia di nuovi meccanismi che possano spiegare l'origine dei buchi neri. Gabriele Francioli al Cern si occupa di questo, di come nelle prime fasi di vita dell'universo – prima ancora che si formassero le stelle – si possano essere creati buchi neri "primordiali". Per capire meglio di che cosa di tratta, occorre introdurre il concetto di orizzonte. Consideriamo l'universo visibile oggi: si trova all'interno di un confine, detto appunto orizzonte, all'interno del quale si trovano gli oggetti che riusciamo a vedere. Gli oggetti oltre l'orizzonte, al contrario, sono troppo lontani e non possiamo visualizzarli, perché dal Big Bang a oggi la luce che hanno emesso non ha fatto ancora in tempo a raggiungerci. Ciò che si trova dentro il nostro orizzonte può avere un rapporto di causa ed effetto con noi, ciò che si trova all'esterno no.
L'orizzonte si espande nel tempo, perché più tempo passa e più la luce degli oggetti lontani ha tempo per raggiungerci. Al contrario, andando a ritroso nel tempo, l'orizzonte diventa sempre più piccolo. E siamo arrivati al punto. Si pensa che nelle sue primissime fasi l'universo abbia subito un'espansione iperaccelerata detta "inflazione". In quel periodo, il cosmo era scosso da fluttuazioni di natura quantistica, dalle quali molto dopo sarebbero nate le strutture attuali: stelle, galassie e ammassi di galassie. «Se c'erano fluttuazioni marcate su piccola scala, potrebbero essere collassate sotto la forza di gravità formando buchi neri primordiali», spiega Franciolini. E il momento in cui questo è avvenuto – frazioni di secondo dopo il Big Bang – è stato determinato dall'orizzonte: una regione collassava quando l'orizzonte si espandeva al punto da inglobarla per intero, altrimenti le sue singole parti sarebbero risultate "scollegate" tra loro. In pratica, appena queste fluttuazioni hanno trovato il tempo di farlo, sono diventate buchi neri. . Materia oscura. «Questo scenario può produrre masse in un range enorme, da qualche grammo fino a centinaia di masse solari. Dipende da quali erano le condizioni iniziali, cioè dalla scala a cui si sviluppavano queste perturbazioni di grande densità», commenta Franciolini.
A un'estremità della scala ci sono buchi neri con massa di circa 10-12 masse solari, tipicamente la massa di un asteroide (10-12 è pari a un milionesimo di milionesimo). Avrebbero le dimensioni di un atomo e, se veramente esistessero in grandi quantità, potrebbero costituire la massa mancante dell'universo, cioè quella che viene comunemente chiamata "materia oscura", risolvendo uno dei grandi enigmi dell'universo. È un'ipotesi tra tante, ma potrebbe essere sottoposta a verifica attraverso osservazioni astronomiche in futuro (in particolare, attraverso l'osservazione del fondo cosmico di onde gravitazionali).. Un nuovo osservatorio. All'altra estremità della scala ci sono i buchi neri di massa pari a 100 masse solari. Erano le masse in gioco in GW231123, quelle da cui siamo partiti. «Lo scenario primordiale permette di creare buchi neri anche di questo tipo», spiega Franciolini. E se ce ne fossero stati abbastanza, scontrandosi tra loro fin dall'inizio avrebbero avuto tutto il tempo di produrre anche buchi neri come UHZ1, risolvendo due misteri in un colpo solo.
«Lo scenario primordiale unifica le due situazioni», enfatizza Franciolini. «E sappiamo che sarà testato. Con la nuova generazione di osservatori di onde gravitazionali come l'Einstein Telescope, infatti, esploreremo distanze ancora maggiori di quelle attuali e sapremo se questi buchi neri erano lì prima che le galassie si formassero – 10 o 100 milioni di anni dopo il Big Bang – oppure no».
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