Il mio liceo, lo studio (poco) e le pene sofferte con la prof. Robespierre

  • Postato il 26 luglio 2025
  • Di Il Foglio
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Il mio liceo, lo studio (poco) e le pene sofferte con la prof. Robespierre

Ho vissuto i miei anni da studente delle superiori, in particolare i due che all’epoca si chiamavano ancora ginnasio, sotto una dittatura sanguinaria. Tutto il potere era nelle mani di una sola professoressa: italiano, latino, greco, storia, geografia, legislativo, esecutivo, giudiziario, faceva tutto lei, decideva tutto lei, Montesquieu non esisteva. Si chiamava professoressa Sciabbarrà, ma per noi era la Robespierre, e poteva disporre di noi come meglio credeva, le nostre famiglie ci avevano ceduti a lei per un piatto di lenticchie, non avevamo più nessuno a cui poter chiedere aiuto.  La Robespierre non era imputabile di crudeltà presso il tribunale dell’Aja (mancava di accanimento) e non agiva per capriccio, ma la sua mano era un flagello, il flagello della fòrmica: PEM! Certi colpi dati con la mano di taglio, come un judoka, squassavano la cattedra ogni volta che sbagliavamo il paradigma di gignomai o esitavamo sull’orografia del centro America. 


Quando la sua mano scendeva in picchiata verso la cattedra, si udiva un sibilo, i gatti  soffiavano, i cani guaivano e noi, quelli scampati all’interrogazione, indossavamo l’elmetto e ci rifugiavamo sotto i banchi, rannicchiati in attesa della fine: presto si sarebbe stancata di loro e sarebbe passata a noi. PEM! PEM! PEM! ANDATE A POSTO, IGNORANTELLI!  Poi chiamava il bidello e chiedeva che le fosse subito sostituita la cattedra: non lo vedete che questa è tutta scassata? Durante gli ultimi mesi del quinto ginnasio la Robespierre esercitava il proprio arbitrio senza nessun freno, sostituiva cattedre come Hitler sostituiva generali. Eravamo nel 1989, ma la Robespierre non aveva mai abolito gli esami di passaggio dal ginnasio al liceo, dunque ce li impose: saremmo stati interrogati su tutto il programma di tutto il biennio in tutte le sue materie, tutti, a sorpresa, una mattina qualunque. 


Fu molto peggio dell’esame di maturità (che in confronto ricordo come una passeggiata). La Robespierre conduceva interrogatori che potevano andare avanti per giorni o per settimane, apriva una pagina a caso dei Promessi sposi, ti puntava la lampada in faccia e ti chiedeva: chi sta parlando qua? Tonio? L’Azzeccagarbugli? In che capitolo siamo? Che ora era? AH NON RISPONDI? QUINDI NON LO SAI! PEM! Del resto, il suo metodo era sempre stato questo: la mano che si alza, spostamento d’aria, sibilo del bombardiere, PEM!, verifiche scritte, verifiche orali, verifiche continue, la Robespierre era come D’Avigo, per lei non c’erano ragazzi studiosi, ma solo studenti svogliati che non aveva scoperto, perciò ci tartassava ogni giorno, con metodo, senza sosta, finché non ci smascherava: il primo giorno di scuola eravamo in 27, l’ultimo in 12. Per questo tra di noi non c’era alcun affiatamento: nessuno voleva legarsi emotivamente a compagni e compagne che stavano come in autunno sugli alberi le foglie. 

 
Quando la Robespierre entrava in classe, tutti eravamo pronti a tradirci l’uno con l’altro, la delazione per noi era uno strumento di sopravvivenza fondamentale, ci affannavamo a segnalare subito chi non aveva fatto la versione o il riassunto, non volevamo passare per complici e in più speravamo di placarla offrendole in pasto ora il più debole, ora il più forte, secondo il tipo di appetito che la Belva sembrava manifestare quel giorno: prenda lui professoressa, è magrolino, ma la carne più saporita non è quella da spolpare intorno alle ossa? Oppure: ha visto che bel boccone succulento le abbiamo messo da parte stamattina? Assaggi! Favorisca, favorisca!

 
I voti erano l’ultima delle nostre preoccupazioni, perché di preoccupazione ne avevamo una sola: vivere. Sei, sette, otto (oltre l’otto non era mai andato nessuno, oltre l’otto cominciavano voti della cui esistenza era lecito dubitare, oltre l’otto si entrava nella mistica pitagorica, oltre l’otto c’erano i misteri eleusini) non faceva nessuna differenza, la gara era molto più basilare, il discrimine era tra chi sarebbe tornato a casa e chi no, tra i sommersi e i salvati. 

 
Un altro tipo di competizione si svolgeva invece nella mente della Robespierre, tra noi, i suoi studenti, e gli studenti dei licei del nord,  il D’Azeglio di Torino, il Berchet di Milano, il Giulio Cesare di Roma. Il suo scopo era selezionarci come specie: meridionali che sarebbero potuti sopravvivere e addirittura prosperare nei licei settentrionali di prestigio. Gli altri, tutti gli altri, giù dalla rupe. La Robespierre considerava qualsiasi incertezza al pari di una impreparazione: se tentenni è perché non sei sicuro, se non sei sicuro è perché non hai studiato, se non hai studiato adesso imparerai cosa significa essere un peccatore tra le mani di un Dio adirato. Coniava verbi apposta per noi, onomatopee modellate sul voto che stava per darci: Fillioley con questa vocine flebile tu cinquetti! Fillioley tu QUATTREGGI! Fillioley tu DUETTI!  Eravamo canne al vento e lei era tempesta. La cosa che a pensaci oggi mi impressiona di più però è che nonostante vivessimo in questo costante clima da punizione divina imminente, la nostra determinazione a non fare un cazzo non subiva mai nessuna flessione, anzi lussureggiava. 

 
Sapevamo benissimo che studiare poco o male o per niente ci avrebbe causato pubbliche umiliazioni, torture e poi danni gravissimi (sospensioni, bocciature, esami di riparazione, ripetizioni estive), eppure lo stesso riuscivamo a passare i pomeriggi ciondolando in giro come se non avessimo avuto nulla da fare.  Superata la mattina, l’incubo si dissolveva per il resto della giornata, e tornava la gioventù, la spensieratezza, la strafottenza, l’incoscienza: sparivamo chissà dove, in piazza, al mare, a giocare a pallone o ai videogiochi, ad ascoltare dischi o leggere fumetti, a feste di compleanno, a fare scherzi telefonici idioti, a staccare la pipetta dai motorini delle ragazze. La scuola, in poche parole, non vinceva mai, e sospetto che non abbia mai vinto, nemmeno quando gli insegnanti entravano in classe brandendo la spada e se sbagliavi l’aoristo passivo ti facevano saltare di netto tre dita del piede. Mio nonno aveva frequentato il mio stesso liceo durante gli anni del fascismo. Anche lui ricordava anni di spavento e angoscia, eppure anche lui, come me, non studiava niente lo stesso. 

 
Generazioni e generazioni di alunni hanno attraversato la scuola pubblica dall’unità d’Italia in poi senza mai piegarsi davvero al comandamento degli insegnanti (“Studiate, deficienti!”). Perfino durante l’epoca d’oro dell’autoritarismo scolastico, quando questo unico comandamento veniva impartito da figure veramente tremende e anche discretamente potenti, lo studente italiano si è sempre dimostrato capace di fottersene e disattendere il suo dovere, o comunque di farlo al minimo sindacale, affrontando la furia, l’ira, le ritorsioni, le soverchierie degli insegnanti più arcigni e uscendone indenne e ignorante come prima. La domanda che mi faccio in questi giorni è: veramente oggi i ragazzi non ci riescono più? Veramente  si è spenta in loro la fiamma della giovinezza, della strafottenza, della voglia di fare poco o fare il minimo, che ha caratterizzato i nostri scolari per oltre un secolo e mezzo? Davvero questo corpo docente (di cui io faccio parte), apparentemente fin troppo empatico, senz’altro meno ieratico di un tempo, e anzi un po’ mollaccione, è riuscito a trovare un’arma così sofisticata da rovinare gli anni più belli agli adolescenti? Veramente ci siamo inventati un soft power così pernicioso da rendere tossico l’ambiente, spietata la competizione, normale la spersonalizzazione, totale l’identificazione dei ragazzi col loro voto? 

 
Il mio compagno di banco si chiamava Ciccio. Anche lui viveva con paura ogni giornata scolastica, anche lui temeva umiliazioni e torture, anche lui latrava quando nell’aria si sentiva sibilare il fendente della Sciabbarrà. Era però meno mutrioso di me e di tanti altri, era rimasto spontaneo, fresco, reagiva con candore, senza pensare troppo alle conseguenze.  Una mattina la professoressa gli restituì un compito di latino con stampato un TRE rosso ed enorme. Nel porgerglielo, gli disse: ma come diavolo si fa a prendere tre? Ciccio subito rispose: e che ci vuole? Lei mi deve dire come si fa a prendere otto!  Le battute non erano ammesse, le battute erano considerate hybris, eppure quella volta la Robespierre guardò Ciccio e non lo punì, lo lasciò vivere come premio per la sua sagacia, come Currado con Chichibio. Successe di più: noi ridemmo, e nemmeno noi fummo puniti per avere riso. Fu una forma di protesta? Forse, ma inconsapevole, eravamo troppo scemi per protestare con consapevolezza. Il potere della Robespierre quel giorno però si incrinò. Forse la professoressa si ammorbidì perché aveva scorto in noi una forza che fino a quel momento non avevamo dimostrato, o forse, chi lo sa, ci vide “cresciuti”. Qualche giorno dopo, l’esame che la Robespierre non aveva mai abolito fu superato da tutti. Il nostro termidoro ebbe finalmente inizio.

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Il Foglio

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