Il Ministero della Cultura si trasforma in esattore? Scatta la tagliola fiscale per gli operatori più deboli

  • Postato il 13 giugno 2025
  • Blog
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 1 Visualizzazioni

La notizia serpeggia negli ambienti del sistema cinematografico e audiovisivo, ma non è ancora esplosa nella sua dirompente dimensione: da qualche giorno, la Direzione Cinema e Audiovisivo del Ministero della Cultura, assieme alla consorella Direzione Spettacolo (teatro, musica, danza…), ha deciso di attivare una procedura amministrativa secondo la quale, per ogni pagamento ministeriale superiore a 5.000 euro, chiede una verifica all’Agenzia delle Entrate, la quale, prima che il bonifico ministeriale venga perfezionato a favore del beneficiario, in caso di pendenze tributarie si attiva tempestivamente con un pignoramento “contro terzi” (ovvero il Ministero stesso).

Di fatto, tutti i soggetti che operano con le due direzioni generali (Dgca e Dgs) sono sottoposti al rischio di questa tagliola. I primi pignoramenti sono già scattati.

Si prevede che nelle prossime settimane centinaia di operatori del settore, dai grandi produttori alle piccole associazioni culturali, soffriranno le conseguenze di questa decisione, che è amministrativa ma al contempo politica. La politica culturale si sostanzia infatti anche nelle pratiche amministrative, nelle procedure, nelle prassi. La decisione è stata assunta qualche giorno fa, ma non ve ne è ancora alcuna pubblica evidenza. È emersa semplicemente perché alcuni “pignorati” ne hanno già sofferto le conseguenze.

La questione va contestualizzata: esiste un Decreto del Presidente della Repubblica, il n. 602 del 1973 (emanato sotto il Governo Rumor IV, centro-sinistra, con Emilio Colombo Ministro delle Finanze), che impone questa regola a tutti i pagamenti delle pubbliche amministrazioni (superiori alla soglia di 5.000 euro, che era invece di 10.000 fino al 2018), ovvero una verifica della correttezza tributaria del beneficiario. Vale per i ministeri, le regioni, le asl, qualsiasi ente pubblico…

Come spesso accade in Italia, c’è però una “eccezione alla regola”: nel luglio del 2008, in risposta ad un quesito dello stesso Ministero della Cultura, l’allora Ragioniere Generale dello Stato Mario Canzio, stabiliva che, a fronte del rilevante interesse pubblico, ovvero del preminente interesse dello Stato e della collettività, i pagamenti afferenti attività del settore dello spettacolo (e quindi della cultura) non dovessero essere sottoposti a questa verifica. E così è stato nel corso dei decenni, fino a pochi giorni fa.

E peraltro si tratta di contributi pubblici vincolati ad una specifica attività, che risponde a bandi selettivi e regole specifiche. Sono erogazioni pubbliche sottoposte a procedimenti vincolati: non si tratta di somme pignorabili. Ed un Ministero non può essere considerato un… “terzo creditore”!

Un liberista e garantista potrebbe comunque sostenere: “Bene, un altro privilegio dei furbetti della casta del cinema e dello spettacolo è stato finalmente eliminato”. Un destrorso estremista potrebbe plaudire a questa decisione, che riduce quella che negli ultimi mesi quotidiani come La Verità hanno definito “la mangiatoia degli intellettuali di sinistra”, denunciando gli abusi del tax credit. Un riformista progressista potrebbe contestare: “è un errore grave, si tratta di un settore strutturalmente fragile, è bene che lo Stato lo assista, altrimenti si produrrà sempre meno cultura”.

Non è agevole stimare le dimensioni della decisione, che pure ci si augura verrà presto resa di pubblico dominio: deve esistere un atto amministrativo formale, e sarà interessante leggere la firma di chi l’ha stilato.

Certamente ne andranno a soffrire centinaia e centinaia di imprese ed associazioni.
C’è chi interpreta la notizia come il risultato di un asse congiunto “repressivo” dei due Sottosegretari competenti: Lucia Borgonzoni (Lega Salvini) che ha la delega su cinema e audiovisivo ed è sotto attacco per la controversa riforma del “tax credit” cinematografico e audiovisivo, e Gianmarco Mazzi (Fratelli d’Italia) che ha la delega per lo spettacolo dal vivo e non riesce a portare a termine la riforma del settore.

Alcuni ritengono che sia stata una decisione assunta con la benedizione (o su input) della Ragioniera Generale dello Stato, quella Daria Perrotta nominata dal Ministro Giancarlo Giorgetti nell’agosto 2024 alla guida del principale organo di controllo delle finanze pubbliche (Perrotta guidava il legislativo del Mef, e, in quella veste, era anche stata cooptata nel massimo organo di consulenza del Mic, ovvero il Consiglio Superiore del Cinema e Audiovisivo, nel quale peraltro ancora siede): l’obiettivo sarebbe al contempo “fare pulizia” e soprattutto “fare cassa”. In questo caso, però, soprattutto a spese dei soggetti più piccoli e più deboli, con buona pace di quella “pace fiscale” tanto auspicata dal Vice Premier Matteo Salvini: con questa improvvida quanto improvvisa decisione, il Mic toglie il respiro ad imprese, associazioni, lavoratori.

Altri sostengono che siano stati messi sotto i riflettori dalla Procura della Corte dei Conti i due direttori generali, Nicola Borrelli (cinema e audiovisivo) e Antonio Parente (spettacolo dal vivo), i quali potrebbero addirittura essere accusati di “danno erariale”, per mancato controllo nel corso dei decenni. Ma entrambi, per il passato, sono forti della interpretazione della Ragioneria dello Stato, con note e circolari che hanno confermato che esiste una precisa deroga: una vera e propria “eccezione culturale” alla regola generale.

Altri obiettano che un contributo pubblico (alla cultura, ma anche ad altre attività di interesse nazionale) non può essere assimilato ad un pagamento qualsiasi (come per un appalto, per esempio, ove c’è prestazione e controprestazione), e quindi l’Agenzia delle Entrate (alias Agenzia della Riscossione) non può proprio “pignorare”, non essendo il Ministero della Cultura – peraltro – un “creditore terzo”.

Quel che è sicuro è che si tratta di una decisione che va a colpire senza dubbio la parte più debole del settore del cinema e audiovisivo e dello spettacolo, ovvero tutti quei soggetti che, se sono esposti verso l’erario, soffrono evidentemente di difficoltà sopravvivenziali.
Peraltro, questa repentina decisione cozza platealmente anche con recenti orientamenti altri del governo, nella legge nota come “Decreto Cultura” è stata introdotta una deroga, che conferma l’approccio storico di esenzione del settore culturale dalle norme generali.

L’articolo 9 della Legge n. 16 del 21 febbraio 2025 recita infatti: “Non sono soggetti a esecuzione forzata i fondi del Ministero della Cultura destinati, in forza di una norma di legge o di un provvedimento amministrativo, a un pubblico servizio per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale”. Il preambolo alla norma conferma chiaramente l’intenzione del legislatore di ribadire l’impignorabilità dei fondi destinati alla tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, categoria nella quale rientrano inequivocabilmente anche i contributi per il cinema ed allo spettacolo, data la loro incontestabile qualificazione come attività culturale. Fatta salva una decisione di revoca in autotutela da parte del Ministero della Cultura e dell’Agenzia delle Entrate, si prevede una valanga di ricorsi alla magistratura.

La questione comunque è squisitamente politica: chi ha voluto cambiare le regole, dopo decenni di rispetto del principio della peculiarità del settore e del preminente interesse pubblico nei confronti della cultura?! E, soprattutto, perché questa brusca inversione ad U nell’operato della pubblica amministrazione, con una decisione che toglie ossigeno a centinaia di operatori ed a migliaia di lavoratori?!

L'articolo Il Ministero della Cultura si trasforma in esattore? Scatta la tagliola fiscale per gli operatori più deboli proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti