Il graffitismo newyorkese arriva in Sardegna in occasione del Dromos Festival

Inserita nel contesto della XXVII edizione del Dromos Festival di Oristano, la mostra Hope Around. New York Graffiti nasce dalla generosità di Pietro Molinas Balata che ha messo a disposizione la sua collezione personale ad oggi completamente inedita. Un’importante raccolta che offre un ampio spaccato della Old School di New York, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, che ha influenzato generazioni di writer. Ne abbiamo parlato con la curatrice Fabiola Naldi.

Rammellzee • senza titolo, 1986 • spray su tela cm120X90 • Courtesy Collezione Pietro Molinas Barata
Rammellzee • senza titolo, 1986 • spray su tela cm120X90 • Courtesy Collezione Pietro Molinas Barata

Il Dromos Festival secondo la curatrice Fabiola Naldi

Com’è nato il sodalizio con il Dromos Festival?
Sono stata contattata lo scorso maggio da Salvatore Corona, organizzatore del Dromos Festival, che mi ha proposto una collaborazione — in particolare la curatela — per conto di Pietro Molinas Balata, collezionista e proprietario delle opere in questione. Inizialmente ero scettica, a causa della mia costante riflessione nel corso degli anni sulla reale collocazione di questa disciplina, che vedo strettamente e intimamente legata all’ambito urbano e non a dispositivi come la tela e alle loro conseguente collocazioni in gallerie d’arte o musei. Tuttavia, una volta visionato il materiale proposto, ogni esitazione è svanita: mi sono trovata di fronte a un corpus davvero unico, autentico e originale, che restituisce con coerenza il lavoro della prima e della seconda generazione di writer newyorkesi. Un patrimonio prezioso, radicato in epoche ormai lontane, ma decisive per l’evoluzione stessa del writing come forma d’espressione artistica.

Street art e graffitismo nascono come libera espressione non autorizzata e strettamente connessa allo spazio urbano. Non crede che il messaggio possa perdere di autenticità in un contesto istituzionale?
Il graffitismo e la street art sono due espressioni profondamente diverse, portatrici di messaggi e intenti spesso divergenti. Se però ci concentriamo sul writing nella sua forma autentica e originaria — quello nato sul finire degli anni Sessanta in America — sento di dover ribadire una convinzione che porto avanti da tempo: queste pratiche dovrebbero restare, per la loro stessa natura, per lo più illegali e collocate in contesti specifici e coerenti, come yard, treni, banchine, muri… e solo in rari casi, attraverso progetti mirati, pensati con attenzione e spesso condivisi con gli stessi writer. Il contesto istituzionale — se parliamo di musei o spazi espositivi canonici — ha rappresentato, soprattutto per i pionieri del movimento, una legittima urgenza: quella di testare il proprio linguaggio in ambienti differenti, sfidando codici e convenzioni. Ma questo non implica che ciò che nasce sul muro debba necessariamente migrare su tela. Al contrario: si tratta spesso di linguaggi che vengono trasformati, rielaborati, adattati per rispondere al nuovo contesto che li accoglie. Negli ultimi anni, queste pratiche hanno subito una progressiva trasformazione e, in molti casi, una strumentalizzazione. Per tanti writer, sin dall’inizio, si è trattato di un’attività radicalmente indipendente, estranea a logiche di mercato o istituzionali. Col tempo, tuttavia, si è fatto un uso eccessivo — e spesso abusivo — dell’idea di “salvare ciò che sulla strada non si può conservare”, riportandolo all’interno dei musei. Ma questa operazione ha poco a che fare con i processi autentici messi in atto dagli autori o dai curatori più consapevoli. Piuttosto, si tratta di una forma di speculazione, una strumentalizzazione nata strada facendo.

Quale funzione sociale può avere il graffissimo quando inserito negli spazi ufficiali?
Il graffitismo è sempre stato privo di una funzione utilitaristica, se non quella di esistere per sé stesso: per crescere, evolversi, generare una comunità in continua espansione, attraverso la sfida del linguaggio e degli stili — uno scambio che ha contribuito, nel tempo, a far maturare la disciplina stessa. La presenza del graffitismo all’interno di spazi ufficiali non è un fenomeno recente. Non a caso, il sottotitolo della mia mostra è New York Graffiti, un esplicito omaggio a Arte di frontiera: New York Graffiti, la storica esposizione curata da Francesca Alinovi nel marzo 1984 presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Ritengo che ciò che è stato realizzato in quegli anni sia profondamente diverso da molte delle proposte che oggi si vedono nei circuiti istituzionali. In questo progetto, la mia esigenza era chiara: lavorare con gli storici, con quegli artisti che hanno saputo portare il graffitismo su supporti pittorici senza tradirne l’essenza. Mi riferisco a chi ha continuato a utilizzare strumenti iconici come la bomboletta spray, mantenendo una fedeltà formale e concettuale alla radice più autentica di questa pratica. Il motivo per cui ho accettato di curare questa mostra — e ciò che rende queste 47 opere davvero fondamentali — è la loro capacità di documentare con precisione momenti cruciali e traiettorie individuali di grandi pionieri del movimento: da Rammellzee a Phase II, da Zephyr a Duster, da Dondi a Delta II, fino ai protagonisti più giovani che hanno operato nella New York tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta.

Veniamo alla collezione di Pietro Molinas Balata, considerata la più completa raccolta di writer newyorkesi. Quando nasce e qual è il suo filo conduttore?
È stato Pietro Molinas Balata a cercarmi, chiedendomi di costruire — attraverso la mia competenza scientifica — un’esposizione che fosse in grado di valorizzare, anche dal punto di vista allestitivo, le opere che ha raccolto nel corso dei decenni. Va detto che la sua collezione comprende pezzi straordinari, di grande rilevanza storica. In questo contesto, il mio ruolo è stato soprattutto quello di storica dell’arte, che ha scelto di mettersi al servizio della curatela per proporre una riflessione approfondita sulla disciplina.

Può farci qualche nome?
Fab Five Freddy, Lee Quinones, Duster, Delta 2, Ero, Kool Koor, Toxic, A-One, Zephyr, Phase 2, Rammellzee. Parliamo di opere realizzate in un momento in cui questi artisti erano estremamente attivi, sia nello spazio urbano sia nella sperimentazione di altri dispositivi espressivi, attraverso i quali il lettering e il writing potevano evolversi e aprirsi a nuove direzioni.

La mostra e l’omaggio a Francesca Alinovi

La mostra rappresenta anche un omaggio a Francesca Alinovi, ce ne parla?
Studio da molti anni il percorso critico e scientifico di Francesca Alinovi. Ho scritto di lei in diverse occasioni, partecipando a convegni e progetti, ma in particolare lo scorso anno ho curato una mostra che intendeva essere, al tempo stesso, un omaggio e un ricordo, in occasione dell’anniversario di Arte di frontiera: New York Graffiti. La mostra che ho curato nel 2024 si intitola Frontiera 40. Italian Style Writing 1984–2024 e ha coinvolto 181 writer italiani che, dal 1984 ai primi anni Duemila, hanno operato nello spazio urbano in modo pienamente coerente con i codici dello style writing. Il sottotitolo Hope Around – New York Graffiti ha assunto un duplice significato: da un lato, indicare che tutti gli artisti presenti in mostra sono di origine newyorkese e che hanno costruito la propria street credibility a partire dalla fine degli anni Settanta; dall’altro, rendere ancora una volta omaggio al lavoro visionario e anticipatore di Francesca Alinovi. Il mio lavoro, da anni, si muove proprio in questa direzione: nel tentativo di ricordare quanto sia stata pionieristica la sua ricerca, soprattutto in relazione al writing e all’arte ambientale. Per me, Alinovi è sempre stata — e continua a essere — un punto di riferimento critico imprescindibile. Anche questa volta, il mio lavoro è partito da lì.

Le sue aspettative sull’evento sono state soddisfatte?
Pietro Molinas Balata desiderava che questa collezione fosse esposta, per la prima volta, nella sua isola: la Sardegna. Un territorio che possiede una storia e una tradizione fortemente radicate in relazione a questa disciplina. Io stessa, in passato, sono stata coinvolta in riflessioni teoriche e analisi sull’impatto del writing nel tessuto urbano sardo. Sono molto soddisfatta dell’andamento della mostra e sinceramente colpita dall’alta affluenza di visitatori, soprattutto giovani, che hanno saputo cogliere il valore e la portata di questo progetto. Anche grazie all’eccezionalità della collezione di Pietro Molinas Balata, questa esposizione si è rivelata davvero unica nel suo genere. Sono consapevole che si tratta di un progetto che potrebbe trovare spazio in qualsiasi museo, non solo in Italia, ma anche a livello europeo e internazionale. La mostra ha infatti una solidità scientifica, presenta opere inedite e materiali mai esposti prima, fondamentali per comprendere a fondo l’evoluzione storica ed estetica della disciplina.

Roberta Vanali

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L’articolo "Il graffitismo newyorkese arriva in Sardegna in occasione del Dromos Festival" è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

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