Il geografo Paul Richardson: “La pandemia ci ha insegnato che il concetto di nazione è un mito da abbattere”
- Postato il 25 febbraio 2025
- Mondo
- Di Il Fatto Quotidiano
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Combattere la crisi climatica? Difficile, anzi impossibile se non cambiamo il modo in cui viviamo la nostra geografia, in maniera deterministica, come se fosse un destino. A lanciare la polemica in un libro che spiazza – Le bugie delle mappe, Marsilio editore – è Paul Richardson, professore della School of Geography, Earth and Environmental Sciences presso l’Università di Birmingham, secondo cui “contro pandemie e disastri climatici dobbiamo combattere tutta una serie di miti. Tra cui, per primi, quello dei continenti, dei muri difensivi, della nazione e del concetto stesso di sovranità”.
In realtà, spiega il professore, in geografia non c’è nulla di ineluttabile. Prendiamo i continenti (che tra l’altro, nei prossimi 250 milioni di anni, si fonderanno insieme in un super continente). Non solo capire esattamente quanti siano non è semplice, ma “non brillano neanche per uniformità geografica”. Lo schema continentale è soprattutto un costrutto politico e culturale, di per sé riduttivo e che sorvola sulla complessità della realtà.
L’ossessione per la nazione impedisce il fronte comune
L’altro mito che va decostruito è quello della nazione, accompagnato dalla convinzione che sia tanto antica quanto naturale, “quando invece le nazioni sono un mix di culture, conflitti, migrazioni passate e presenti”. Le nazioni sono state fonte di motivazione, ma anche concetti per giustificare violenza estrema, nonostante i loro confini siano spesso arbitrari, attraversati da molteplici identità. Ma soprattutto, afferma il geografo, “l’ossessione per la nazione ci impedisce di far fronte comune per gestire le emergenze che non rispettano i confini, come le pandemie e il cambiamento climatico”.
Ancora: il mito della sovranità, intesa come controllo sulle persone e sul territorio. Ebbene, si tratta di un mito che “ha una concezione ridotta del mondo, perché lo vede come puro territorio completamente all’esterno o all’interno del controllo di uno stato”. La storia insegna che i leader più sovranisti, come Boris Johnson e Donald Trump, sono stati i più incapaci a combattere l’epidemia di Covid-19. “Mentre si distraevano con le loro inutili lotte del «Riprendiamo il controllo» e del «Make America Great Again», milioni di persone si ammalavano e centinaia di migliaia morivano”, commenta Richardson.
Uscire dalle prigioni della geografia
Ecco perché, continua l’esperto, i muri che innalziamo, che non funzionano, non sanno garantire sicurezza e spesso ottengono l’effetto contrario, “fomentando paure e insicurezze e creando un aumento di violenza e conflitti etnici nei loro dintorni. I muri non fermano né i flussi migratori, né le sostanze stupefacenti, né gli afflussi di capitale, né le malattie infettive, né le reti terroristiche”.
Per affrontare i problemi globali, dunque, serve uscire “dalle prigioni della geografia che abbiamo immaginato per iniziare a ragionare a livello planetario e riconoscere i legami che ci uniscono”. Gli esseri umani in fondo sono connessi, sia a livello fisico che psicologico, a un’atmosfera e a una biosfera che non ammettono confini. Ecco perché un senso di appartenenza che vada oltre i miti della geografia non porterà all’anarchia; al contrario, ci aiuterà a prevenirla. Solo abbattendo i muri che dividono gli Stati “sovrani”, forse saremo in grado di dare al mondo un assetto più giusto, sostenibile ed equo. Ecco perché, afferma in conclusione Richardson l’obiettivo è arrivare a “escogitare meccanismi sovranazionali per gestire le minacce alla sopravvivenza causate dall’uomo, come il cambiamento climatico, le armi nucleari e le pandemie”. Immaginare il mondo da altre prospettive “è la sfida del nostro tempo”.
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