Il dollaro debole fa (quasi) più paura dei dazi. Tariffe e cambi “devastanti per pmi italiane”
- Postato il 7 luglio 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Più che il dazio, poté il dollaro. In attesa di capire dove andrà a parare la trattativa sulle tariffe commerciali tra Unione europea e Stati Uniti, un dazio occulto è già all’opera. Dall’inizio dell’anno il biglietto verde ha perso il 13,5% nel cambio con l’euro. Ciò significa che per un europeo comprare prodotti americani costa di meno ma, nella stessa misura in senso opposto, i beni europei sono più costosi per i consumatori statunitensi. Senza distinzione alcuna di tipologia di prodotti, per di più, l’indebolimento della moneta si spalma su tutto.
Esattamente come accade quando viene imposto un dazio, ciò fa si che i consumatori del paese la cui moneta si deprezza comprino medo prodotti dall’estero poiché più costosi, e si concentrino maggiormente sulle produzioni nazionali. Se dalle trattative Bruxelles- Washington dovesse uscire un’intesa per un dazio americano del 10%, il combinato effetto di tariffa e cambio valutario sarebbe che un prodotto made in Italy comprato oggi costerebbe quasi il 25% in più rispetto allo scorso dicembre. Se poi davvero il dollaro dovesse scendere fino a quota 1,25 per un euro (- 25% da inizio anno), come qualcuno prevede, la barriera si innalzerebbe fino a quota 35%.
Se i beni di fascia alta o altissima possono sopportare un certo aggravio di costi senza eccessive penalizzazioni, per tutti gli altri il discorso è diverso. Ecco perché, indipendentemente da come si concluderanno i negoziati, per molte organizzazioni imprenditoriali è già scattato l’allarme rosso. “Non sono solo i dazi al 10% ma c’è anche la svalutazione anche del dollaro che vale un 13,5%, vuol dire che siamo a 23,5%, un numero che preoccupa e che secondo le nostre stime può avere un impatto sulla nostra industria di circa venti miliardi con 118mila posti di lavoro. Bisogna negoziare tutti uniti come Europa”, ha avvertito qualche giorno fa il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini.
Oggi tocca a Giacomo Ponti, presidente di Federvini, che richiama l’ttenzione sulle conseguenze congiunte delle barriere tariffarie e dell’andamento valutario sul comparto vitivinicolo. “Un dazio al 10% rappresenterebbe già una zavorra pesante per le nostre esportazioni, ma un’aliquota al 20% rischia di essere devastante, soprattutto per le piccole e medie imprese della filiera vinicola“, dichiara Ponti. Ci sono cantine italiane che dipendono dal mercato statunitense per oltre il 50% del proprio fatturato: per loro, un simile aumento delle barriere tariffarie equivarrebbe a una chiusura forzata verso il principale sbocco extraeuropeo.
Introdurre nuove barriere tariffarie in un contesto già segnato da una stagnazione dei consumi a livello globale significa spingere fuori dagli scaffali americani molti dei nostri vini simbolo dal Prosecco al Chianti, dal Pinot grigio al Moscato d’Asti e compromettere una presenza costruita in decenni di relazioni commerciali e culturali. È una minaccia concreta a uno degli asset strategici del Made in Italy, tanto più in una fase di fragilità internazionale, sottolinea Federvini.
Secondo l’associazione del settore non è il momento del protezionismo punitivo. A tutto questo si aggiunge un ulteriore fattore di rischio spesso sottovalutato: landamento del tasso di cambio euro/dollaro. Se oggi siamo tornati attorno a quota 1,18 (dollari per un euro, ndr), solo sei mesi fa eravamo prossimi alla parità, e alcune previsioni parlano di un possibile rafforzamento dell’euro fino a 1,25 nel breve termine.
A sottolineare il pericolo cambio è pure l’opposizione. “Qualche giorno fa Giorgia Meloni ha detto che se i dazi si fermassero al 10% non sarebbero così impattanti per il nostro Paese. Io non so dove viva, però, secondo Confindustria anche al 10%, se si somma il deprezzamento del dollaro al -13%, significherebbe 20 miliardi in meno di esportazioni e 118mila posti di lavoro a rischio”, ricorda la segretaria del Pd Elly Schlein che auspica un negoziato “a schiena dritta”, dal momento che si tratta di “un mercato unico da 500 milioni di abitanti che può andare a toccare dove fa male, ovvero gli interessi delle big tech americane, a cui il governo italiano ha fatto inspiegabilmente un regalo accettando che a loro non si applicasse la tassa minima globale del 15%”.
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