Il diritto di sentirsi a casa: quando l’inclusione diventa privilegio nei gruppi religiosi

  • Postato il 24 giugno 2025
  • Attualità
  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella

L’essere umano ha un bisogno ancestrale e vitale: quello di essere riconosciuto, accolto, visto. È una sete profonda, che attraversa culture, generazioni e storie personali. Nessuno di noi sfugge al desiderio di trovare un luogo – fisico, relazionale, spirituale – che possa chiamare “casa”. Un luogo dove potersi sentire al sicuro, liberi di essere sé stessi, parte integrante di qualcosa che ha senso. Questo desiderio è alla base di molte scelte esistenziali, professionali, affettive. Ma diventa particolarmente delicato e, a tratti, pericolosamente distorto, quando si manifesta all’interno di contesti religiosi o spirituali. In quei luoghi che, per vocazione, dovrebbero essere aperti, accoglienti e universali, capita troppo spesso che il principio dell’appartenenza si trasformi in un criterio selettivo. La “casa” diventa club. Il riconoscimento, privilegio. La fede, identità esclusiva. E l’altro, soprattutto se diverso, dubbioso o in cerca, finisce per essere ignorato, respinto, giudicato o, nel migliore dei casi, semplicemente non visto. Parlare di esclusione nei gruppi religiosi è un paradosso che ferisce. La maggior parte dei testi sacri – dalla Torah al Vangelo, dal Corano ai testi buddhisti – parla di accoglienza, amore, compassione, giustizia, perdono. Eppure, nelle prassi comunitarie, questi valori vengono troppo spesso subordinati alla coerenza dottrinale, alla fedeltà ai fondatori o alla conformità ai linguaggi e ai codici impliciti del gruppo.La spiritualità dovrebbe essere, per sua natura, uno spazio di libertà interiore e di comunione universale. Ma quando diventa istituzione, e l’istituzione si irrigidisce, si perde lo spirito per conservare la lettera. In nome di una verità assoluta, si alzano muri. In nome dell’unità, si escludono le voci dissonanti. In nome della purezza, si esiliano i fragili, gli imperfetti, i feriti. Questo processo non è sempre esplicito. Al contrario, spesso si presenta in modo subdolo: sotto forma di “standard spirituali”, di “fedeltà alla linea”, di “discernimenti collettivi” che, invece di aiutare a crescere, diventano strumenti di controllo. L’esclusione nei gruppi religiosi oggi assume forme meno violente, ma non per questo meno dolorose. Non si tratta più di scomuniche pubbliche o roghi ideologici. Si tratta piuttosto di silenzi, di mancate risposte, di inviti non rinnovati, di ruoli che si dissolvono nel nulla. Si tratta di parole sottili – “non sei ancora pronto”, “non sei in sintonia”, “non sei nel giusto spirito” – che diventano sentenze non pronunciate, ma interiorizzate da chi le riceve come marchi di indegnità. Ciò che è anacronistico non è la necessità di custodia dei valori di una comunità, ma il modo in cui questi vengono difesi. Quando il linguaggio si irrigidisce, quando le domande sono viste come minacce, quando la diversità viene tollerata solo se non disturba, allora si è di fronte a una religiosità che ha paura della vita. E una fede che ha paura della vita, è una fede che tradisce sé stessa.C’è una sottile ma potente dinamica psicologica e sociale che si innesca in molte comunità religiose: il rafforzamento del “noi” a discapito del “loro”. Si crea un senso di appartenenza identitaria così forte che tutto ciò che è esterno viene percepito come estraneo, sbagliato, o addirittura minaccioso. Questo meccanismo di chiusura si accentua nei momenti di crisi, di transizione, di perdita di leadership o di identità. Allora si cominciano a creare cerchie dentro le cerchie. Il “piccolo gruppo” fedele, la “prima cerchia” vicina al fondatore, i “veri interpreti” del carisma. Si formano gerarchie non dichiarate, ma potentissime, che stabiliscono chi ha diritto a parlare, a proporre, a rappresentare. Chi può osare sogni nuovi e chi deve restare in ascolto, obbediente. Chi può sbagliare ed essere corretto con amore e chi invece è destinato a essere lentamente escluso per “incompatibilità”.Il linguaggio dell’amore e dell’accoglienza viene spesso mantenuto in superficie, come forma comunicativa. Ma la pratica concreta parla un’altra lingua. Una lingua che seleziona, che filtra, che decide chi merita il “riconoscimento” e chi no. E il bisogno umano di “trovare casa” viene frustrato proprio lì dove avrebbe dovuto essere più facile sentirsi accolti. Eppure, esiste un’alternativa. Esiste una possibilità autentica di vivere la spiritualità come spazio generativo, non selettivo. Ed è proprio nella parola “misericordia” che possiamo trovare una chiave. Misericordia non è debolezza, non è compromesso, non è sentimentalismo. Misericordia è la scelta radicale di guardare ogni essere umano come portatore di una dignità infinita, al di là dei suoi limiti, delle sue fatiche, dei suoi errori.Una comunità che esercita la misericordia è una comunità che non si difende, ma si dona. Che non costruisce mura, ma apre porte. Che non teme le domande, ma le ascolta come richieste d’amore. Che non si aggrappa alle regole, ma le interpreta alla luce delle persone concrete che le vivono. In questa prospettiva, il bisogno di sentirsi riconosciuti e a casa non è visto come una debolezza, ma come una profonda esigenza spirituale. Non c’è nulla di sbagliato nel desiderare di essere visti, accolti, amati. È ciò per cui siamo stati creati. E se la fede non è capace di rispondere a questo desiderio, allora rischia di diventare sterile, formale, vuota. Un altro nodo da sciogliere è quello del “merito spirituale”. In molte comunità religiose, anche inconsapevolmente, si sviluppa una scala di valori secondo la quale chi “dà di più”, chi “si spende di più”, chi “obbedisce di più”, viene premiato con ruoli, attenzioni, riconoscimenti. Questa logica – che appartiene al mondo del lavoro, dell’efficienza e della performance – è devastante se applicata alla vita spirituale. L’amore non si merita. La fiducia non si conquista. L’accoglienza non si misura in ore donate o in parole dette “correttamente”. Ogni persona è “degna” di essere ascoltata, di sentirsi a casa, di partecipare alla vita comunitaria, semplicemente perché esiste, perché porta in sé una luce unica, irripetibile.Uscire dalla logica del merito non significa non avere criteri. Significa, però, mettere al centro le persone e non i risultati. L’unità non nasce dalla somiglianza, ma dalla relazione. La comunione non si costruisce per selezione, ma per inclusione. Custodire un carisma, una visione, un’identità spirituale non è sbagliato. È necessario. Ma la custodia non può diventare prigione. Il discernimento non può diventare sospetto. Il confine tra protezione e controllo è sottile, e va sempre vigilato. Una comunità spirituale sana è una comunità che si lascia interrogare dalla vita, che accoglie il nuovo senza paura, che lascia spazio al dubbio, alla fragilità, alla ricerca.Trovare “casa” in una comunità di fede dovrebbe essere l’esperienza più semplice, più naturale, più bella. E invece, troppo spesso, diventa un percorso a ostacoli, fatto di richieste implicite, di non detti, di prove da superare. È il momento di cambiare questa dinamica. Di tornare alla radice dell’umano. Di riscoprire che Dio non chiede perfezione, ma autenticità. Che non ama i perfetti, ma gli autentici. Che non costruisce club, ma apre braccia. Gesù – modello di ogni esperienza spirituale autentica – ha fatto della tavola, dell’abbraccio, dello sguardo che riconosce il cuore dell’annuncio. Ha parlato con le prostitute, ha mangiato con i pubblicani, ha toccato i lebbrosi, ha accolto i bambini. Non ha mai selezionato. Ha sempre incluso.Se vogliamo davvero che i gruppi religiosi siano “casa” per tutti, dobbiamo tornare lì. All’essenziale. Alla misericordia. All’ascolto. All’incontro. Solo così l’essere umano potrà smettere di sentirsi ospite e iniziare, finalmente, a sentirsi a casa.

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