Il diabete non è più una malattia da anziani. Smartphone, junk food e sedentarietà: così avanza tra i giovani
- Postato il 28 giugno 2025
- Di Panorama
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Il volto del diabete è cambiato. Non è più quello del sessantenne sovrappeso, che ha fumato per tutta la vita e non si è mai curato dell’alimentazione errata e delle lunghe ore sul divano nella totale noncuranza dei consigli dei medici.
Adesso la malattia ha la faccia dell’universitario, dei trentenni e quarantenni in carriera, e delle nuovissime generazioni con lo smartphone in mano, la bibita zuccherata sulla scrivania, il cibo-spazzatura per cena e il pancreas già in affanno: tutti giovani adulti che – in base ai paradigmi sanitari finora conosciuti – avrebbero dovuto essere ancora per molti decenni immuni da questa patologia invalidante. E invece no. Parliamo del diabete di tipo 2, malattia cronica che in Italia colpisce tra i 3,9 e i 4,5 milioni di persone: caratterizzata da un’eccessiva concentrazione di glucosio nel sangue dovuta a una resistenza all’insulina – ormone che regola i livelli di zucchero -, la patologia è storicamente associata all’età più che adulta; al contrario del diabete di tipo 1, quello giovanile causato da un attacco autoimmune al pancreas.
Il diabete può portare – se non ben controllato – a danni a cuore, reni, occhi, arterie, cervello, contribuendo al carico di malati cronici sul Servizio sanitario nazionale. Ora, un articolo pubblicato su The Lancet Diabetes & Endocrinology da un gruppo di esperti guidati dal medico italiano Giuseppe Maltese, che lavora da anni al King’s College di Londra, lancia l’allarme sulla diffusione di questa epidemia silenziosa. La prevalenza globale del diabete di tipo 2 tra i giovani è in crescita di circa il 40 per cento negli ultimi anni. Ma il problema maggiore è che il diabete giovanile non è solo un’anticipazione del quadro classico: secondo i dati del follow-up trentennale dello UK Prospective Diabetes Study è infatti una variante clinica più aggressiva, con complicanze che insorgono prima, mortalità più alta e decorso più rapido.
Si tratta di un diabete che corre di più e fa più male di quello dei vecchi, e che trasforma chi lo contrae in pazienti anzitempo «fragili», soggetti a frequenti ospedalizzazioni, ridotta qualità di vita e disabilità precoci: un cambiamento epocale. «Bisogna prepararsi a una sfida che può mettere a rischio il futuro di milioni di giovani», spiega Maltese. «È quindi necessario mantenere molto alta l’attenzione della comunità medica e scientifica. Le persone con diagnosi prematura presentano un più rapido declino della funzione delle cellule beta pancreatiche deputate alla secrezione di insulina, una più difficile gestione della glicemia e un rischio più elevato di sviluppare precoci complicanze microvascolari (nefropatia, retinopatia, neuropatia) e macrovascolari come infarto e ictus».
Come hanno scritto nero su bianco gli scienziati, è in atto nel mondo una «crisi metabolica»: le conseguenze sia sulla salute pubblica che sulle spese che i Paesi si troveranno a dover fronteggiare non sono quantificabili. Peraltro, l’Italia è già tra i 10 Paesi al mondo con la più alta spesa sanitaria legata al diabete, e la malattia – quando è precoce – non colpisce solo il corpo, ma ha anche un impatto psicosociale profondo. «Nei giovani, la gestione del diabete è spesso ostacolata da una bassa aderenza terapeutica», sottolinea ancora Maltese. «Ragazzi e giovani adulti saltano i controlli, dimenticano i farmaci, vivono male la diagnosi perché si sentono diversi. E in questa fascia d’età, in molti casi, il diabete è accompagnato da stili di vita a rischio: fumo, alcol, uso di sostanze stupefacenti. Un mix esplosivo, che rende la gestione clinica più difficile, e la malattia ancora più grave e impattante».
Alla base di questo cambio di paradigma della malattia ci sono molte cause, che si intrecciano tra loro. «L’alimentazione ipercalorica, il consumo eccessivo di cibi ultra-processati e la drastica riduzione dell’attività fisica rappresentano il terreno fertile per lo sviluppo della malattia», spiega il professor Dario Pitocco, responsabile dell’Unità operativa complessa di Diabetologia dell’IRCCS Policlinico Gemelli di Roma. «Ma nello stesso tempo è riduttivo pensare che tutto si possa ricondurre allo stile di vita individuale. Alla base del diabete di tipo 2 c’è spesso una predisposizione genetica: si parla di ereditarietà poligenica, ovvero la trasmissione di più geni che, insieme a fattori ambientali, portano alla comparsa della malattia. I due meccanismi principali sono la resistenza all’insulina (il corpo non risponde adeguatamente a questo ormone) e la ridotta capacità di produrla in quantità sufficiente. Questo crea un circolo vizioso: l’insulino-resistenza porta a una produzione maggiore di insulina, che a sua volta favorisce l’aumento di peso, rendendo il corpo ancora più resistente. Quando le cellule beta del pancreas non riescono più a tenere il passo, la glicemia si alza e compare il diabete».
Con l’aggravante che l’esordio è spesso silente: la malattia può restare asintomatica per anni. Quando compaiono i sintomi classici dello scompenso glicemico – sete intensa, aumento della minzione, dimagrimento – spesso il danno è già fatto. Per questo è fondamentale identificare i soggetti a rischio: chi ha familiarità, chi è in sovrappeso, chi ha pressione alta o colesterolo elevato dovrebbe sottoporsi a controlli periodici. Anche il girovita – la classica cintura che non si stringe più – è un importante indicatore: un eccesso di grasso addominale è spesso correlato a insulino-resistenza, segnale che bisogna correre ai ripari prima che sia troppo tardi.
Per fortuna anche nel caso del diabete, la ricerca ci aiuta: negli ultimi anni, infatti, sono stati messi a punto farmaci innovativi per il diabete e l’obesità, alcuni dei quali possono già essere utilizzati dai 12 anni in su. «Gli agonisti del recettore GLP-1 e gli inibitori SGLT2, già noti per i benefici sul controllo glicemico, mostrano effetti anti-aging e pro-longevità», conclude Maltese. «Questi farmaci, finora utilizzati soprattutto negli adulti, potrebbero rappresentare una risorsa anche nei pazienti più giovani: ma serve comunque, sempre, un approccio personalizzato e multidisciplinare».
E anche per il diabete di tipo 1, che è autoimmune e colpisce prevalentemente bambini e giovani adulti (con numeri in crescita anche in questo caso) c’è qualche novità. «Si sta iniziando a utilizzare il teplizumab», afferma Pitocco. «Si tratta di un anticorpo monoclonale che può ritardare l’insorgenza della malattia. Non è una cura definitiva, ma rappresenta un passo avanti nella prevenzione».
Ma in caso di diagnosi in età giovanile non buttarsi giù, perché il diabete – se controllato bene – non è un ostacolo. La dimostrazione? Il tennista numero 3 al mondo, quel Sascha Zverev (1,90 per 90 chili) che ammiriamo in queste settimane tra Roland Garros e Wimbledon, e che combatte con il diabete dall’età di 4 anni. Tra un set e l’altro, spesso, lo si vede a bordo campo misurarsi la glicemia e iniettarsi l’insulina nella coscia. Poi mette giù la siringa e riprende la racchetta. E vince.