Il crollo del modello Milano: ricchi affari ma per pochi
- Postato il 2 agosto 2025
- Di Panorama
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Milano è cresciuta senza una regia. Per anni, la trasformazione della città è stata presentata come un successo, un modello di modernità, innovazione e apertura al capitale internazionale.
Ma sotto la superficie del marketing urbano, si è consolidato un sistema fragile, contraddittorio, opaco. Oggi quel sistema è al collasso. Ottanta indagati, 150 cantieri bloccati, 1.600 appartamenti fermi, un danno economico stimato in centinaia di milioni di euro. Un’indagine che coinvolge politici, assessori, architetti, sviluppatori, tecnici comunali. Ma il punto non è solo giudiziario. È urbanistico, politico, amministrativo.
Secondo quanto emerge dalle indagini della Procura di Milano nell’ambito dell’inchiesta sull’urbanistica, il problema non sarebbe solo riconducibile a episodi di corruzione, ma a una più ampia crisi strutturale del modello di sviluppo della città. Gli inquirenti rilevano come Milano sia ostaggio di un sistema che ha progressivamente abbandonato la pianificazione urbanistica in favore di una gestione caso per caso, spesso al di fuori del Piano di governo del territorio e senza criteri condivisi. A mancare, secondo la Procura, è una visione strategica complessiva, sostituita da una logica di trattativa continua tra pubblico e privato. La crisi, per l’architetto e urbanista Lorenzo Degli Esposti (tra i più critici della giunta Sala in questi mesi a Milano, insieme a diversi altri tecnici e intellettuali), ha radici precise.
«Il modello di sviluppo in corso nasce già durante la prima giunta di Gabriele Albertini. È lì che si inizia a parlare di sviluppo delle politiche urbane, sulla base del “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali – Ricostruire la Grande Milano” concepito nel 2000 da Luigi Mazza – professore urbanista prima a Torino, poi a Milano – per conto del Comune». Un documento ufficiale che delineava assi di sviluppo a “T rovesciata”, da Rogoredo all’area Expo e dal centro verso Sesto San Giovanni, passando per Bicocca e Falck. «Questo schema, tutto sommato logico, seguiva una direttrice chiara: via Emilia che diventa corso Sempione, una continuità territoriale naturale» ricorda Degli Esposti. «L’asse ortogonale nasceva dalla necessità di gestire lo sviluppo nell’area Bicocca-Falck». Ma a quella visione non fu mai dato seguito. «Invece di sviluppare secondo uno schema coerente, si sono moltiplicati interventi slegati tra loro, spesso tenuti fuori dal Pgt». Il Piano di Governo del Territorio, lo strumento cardine per regolare lo sviluppo urbano, è stato sistematicamente aggirato.
«I progetti più significativi non vi rientrano. Il caso emblematico sono gli scali ferroviari» spiega l’architetto. Nel 2017, il Comune firma un accordo con Ferrovie dello Stato e un fondo privato. «L’idea di rigenerare gli scali era giusta: reintegrare aree dismesse nel tessuto urbano è una necessità. Ma questo è avvenuto fuori dal piano regolatore, tramite un accordo di programma. Se fosse passato in consiglio comunale, sarebbe emersa la portata del problema». Il prezzo di quell’accordo? L’abbandono del secondo passante ferroviario, da Porta Genova a Villa Pizzone. «Un’opera strategica per costituire una circle line metropolitana su ferro. Era già stato posto alla base della negoziazione con FS dall’assessore Giorgio Goggi (giunta Albertini): bastava tenerlo come punto fermo e realizzarlo». La giustificazione ufficiale fu “ridurre gli indici edificatori per rendere l’operazione sostenibile”. Ma per Degli Esposti «si è compromessa la mobilità metropolitana su ferro. È stato un errore enorme». Una scelta che ha indebolito la città per i prossimi 100 anni. In cambio, un’urbanistica negoziata, priva di trasparenza.
«Con lo slogan del “verde”, si è giustificata una scelta che ha pregiudicato la realizzazione di un’infrastruttura essenziale. Si è consolidato un approccio decisionale negoziato e non pianificato: si discute caso per caso, con singoli attori, senza una visione unitaria». In questo contesto si è progressivamente persa la distinzione tra interesse collettivo e convenienza privata. «Basta mettere un po’ di housing sociale (ERS) e qualche albero per dire che un progetto è “di interesse collettivo”». Ma l’interesse collettivo, osserva, non è una formula. È una responsabilità di sistema. Non a caso, anche secondo la Procura di Milano, l’Accordo di programma del 2017 sugli scali ferroviari ha prodotto effetti distanti dall’interesse pubblico.
I magistrati richiamano le criticità già evidenziate dal governo Monti, dove l’assegnazione di volumetrie edificabili ai privati era giustificata dalla promessa di opere pubbliche, come il potenziamento del servizio ferroviario urbano. Tuttavia, per la Procura, il risultato è stato uno squilibrio: vantaggi economici sproporzionati per i privati, realizzati anche tramite demolizioni virtuali o discutibili “ristrutturazioni”, a fronte di un peggioramento ambientale, consumo di suolo e perdita di qualità abitativa. Il presunto interesse pubblico si sarebbe così tradotto in un danno concreto per gli abitanti e la collettività. È una responsabilità che si è ulteriormente sgretolata con il ruolo crescente della Commissione Paesaggio. E la conferma da parte del sindaco Beppe Sala del presidente Giuseppe Marinoni, l’ideatore del cosiddetto Pgt ombra, accusato di corruzione.
Allo stesso tempo, quando Giancarlo Tancredi viene nominato assessore, c’erano state già delle criticità: Anac aveva sollevato rilievi per il suo precedente ruolo dirigenziale. La sua nomina era stata voluta da Sala, forzando un po’ la mano. Secondo le indagini, Tancredi è il perno di un sistema opaco, dove «le commissioni tecniche diventano strumenti decisionali rapidi, fuori da una cornice strategica».
Il caso Torre Futura lo dimostra: un progetto bocciato dalla Commissione viene ripresentato da un altro studio, quello di Alessandro Scandurra, membro della stessa Commissione, che riceve un incarico da 321 mila euro. Del resto, se non c’è un quadro di riferimento, ogni progetto diventa valutabile solo per la sua immediatezza. Si perde la capacità di dire con chiarezza cosa è giusto o sbagliato. Il crollo del sistema non è solo istituzionale, ma anche economico.
Per 13 anni, il Comune non ha aggiornato gli oneri di urbanizzazione. Si dice che non siano stati ritoccati per stimolare lo sviluppo edilizio dopo la crisi del 2009 e poi del Covid. Ma è legittimo chiedersi se non sia stata una scelta deliberata, che ha favorito certe operazioni piuttosto che altre. Solo nel 2023 l’amministrazione ha deciso di adeguarli, in modo parziale e tardivo. «Se esiste un problema legato agli oneri di urbanizzazione, e cioè: se alzarli comporta un calo dell’attrattività per gli investitori, allora questo è un tema politico. Se così fosse, se ne discute apertamente, si valutano le opportunità esistenti e si cambia la legge. Punto» precisa Degli Esposti. Invece, si è andati avanti ignorando la norma. «Alla chetichella, si sono messi lì e hanno dovuto adeguarli. Quindi il punto non è che la norma fosse sbagliata -non penso lo fosse, almeno non in questo caso».
Il danno è enorme: solo nel 2024 il Comune stima 165 milioni di euro persi. Sommando il pregresso e le operazioni agevolate attraverso Scia o ristrutturazioni improprie, il buco potrebbe sfiorare un miliardo. Come nel caso delle residenze Lac, dove la Procura ha accertato uno “sconto” di 618.698 euro. La Corte dei conti nel 2024 aveva già denunciato un danno da 300 mila euro per le Park Towers. Oggi il sistema è al collasso. E anche attorno al nuovo stadio di San Siro, la Guardia di Finanza ha parlato di patto corruttivo per aggirare i vincoli ambientali.
Un altro aspetto poco discusso, ma centrale nel caos urbanistico milanese, è la deriva normativa che ha trasformato regole e strumenti tecnici in dispositivi negoziabili. Questa fragilità ha reso possibile un’espansione edilizia scoordinata, che in molti casi si è fondata su proiezioni di crescita smentite dai dati reali.
Nessun piano aggiornato di carico insediativo, nessuna valutazione seria d’impatto su traffico, servizi, infrastrutture. Un vuoto aggravato dall’assenza di trasparenza strutturata: i dati sui flussi edilizi, sugli oneri effettivamente riscossi, sulle compensazioni pubbliche e sui benefici ambientali sono spesso poco accessibili, disorganici, frammentari. In questo contesto, il Consiglio comunale è stato progressivamente esautorato: il dibattito sui grandi interventi si è spostato fuori dalle sedi istituzionali, in un circuito fatto di tavoli tecnici, studi legali e relazioni personali. I cittadini sono stati sistematicamente esclusi dai processi decisionali, anche in presenza di trasformazioni che impattano quartieri interi.
Basti pensare al dibattito su San Siro, condotto prima come “confronto pubblico”, poi tradotto in scelte operative blindate. O al progetto dello Scalo Porta Romana, dove la trasformazione dell’area per ospitare il Villaggio olimpico è passata senza una vera discussione sugli effetti di lungo periodo. A questo si aggiunge una grave confusione tra livelli di pianificazione. In questo quadro, la figura dell’assessore all’urbanistica si è trasformata da guida politica a gestore di dossier. Il caso Tancredi è il più estremo, ma non isolato: da anni l’assessorato è stato progressivamente integrato con l’ufficio tecnico, senza distinzione tra indirizzo e gestione. Il potere politico ha lasciato spazio a una regia tecnica concentrata e poco trasparente. In altre parole: si è perso il governo della trasformazione urbana. E senza governo, si è perso anche il controllo sugli effetti economici, sociali e ambientali dello sviluppo.
Oggi la città paga tutto questo con un sistema bloccato, indebolito, privo di credibilità agli occhi dei cittadini e delle istituzioni. Per ripartire, servirà di più che un nuovo Pgt: servirà riscrivere il rapporto tra regola e decisione, tra indirizzo politico e valutazione tecnica, tra città e chi la abita.