Il corpo delle donne non sia più un campo di battaglia per la tecnoscienza
- Postato il 30 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Sara Gandini e Paolo Bartolini
Il corpo delle donne è da sempre un campo di battaglia. Sul corpo delle donne, e intorno ad esso, si giocano gli interessi del mercato e si svolgono gli scontri della politica e della religione, con la complicità della tecnoscienza.
Una delle nuove frontiere del mercato capitalistico sono infatti gli ovociti. Le nostre cliniche acquistano ovuli da donatrici dell’India, del Sud America o dell’Est Europa a prezzi ridicoli, per venderli ai facoltosi occidentali che intendono approfittare di questi “beni”.
Il sistema capitalistico, allo stesso tempo, chiede alle donne attive in aziende pubbliche e private di rimandare la maternità o comunque di contenere questo desiderio che le allontanerebbe dal posto di lavoro. Le donne devono stare sul mercato in modo competitivo. E così la denatalità cresce in Europa, e in altri paesi occidentali, schiudendo un’area di business anche rispetto alla capacità di generare, ambito che condensa in sé vertiginosi rimandi simbolici.
Lo stesso vale per le pratiche di maternità surrogata, che certificano l’estensione senza confini della mercificazione della vita.
I corpi delle donne, a lungo sotto tutela del patriarcato, oggi sono sempre più in mano al meccanismo “neutro” del profitto a ogni costo. Una volta rappresentavano soprattutto la “risorsa” per eccellenza per la riproduzione della vita, intesa come prolungamento della specie e rigenerazione della futura forza lavoro da sfruttare. Ora diventano il luogo in cui si gioca il desiderio senza limiti di poter acquistare persino un essere umano, mentre un numero spropositato di bambini aspetta ancora che si semplifichino le procedure, troppo spesso lunghe e macchinose, dell’adozione.
Governare la riproduzione è da sempre un compito specifico del potere patriarcale, sia per finalità di controllo che per le sue ricadute strettamente economiche. Del resto in molti sono disposti a pagare pur di avere un bambino e di soddisfare il loro bisogno di immortalità per interposta persona. Peraltro ciò accade, paradossalmente, in una società dove il diritto alla casa e i diritti minimi del lavoro sono spesso negati, quasi a confermare con plastica evidenza la frattura tra pochi soggetti dotati di adeguate possibilità economiche e il vasto numero di famiglie che faticano ad arrivare a fine mese e a rispondere alle necessità di base dei loro figli.
L’invadenza del tecno-capitalismo nelle nostre vite, fino ai recessi più nascosti della nostra esistenza biologica, solleva dunque quesiti etici e politici enormi, e rende indispensabile una riflessione in controtendenza: come mettere dei limiti a questa deriva? Il concetto di limite, infatti, è quello decisivo in questo passaggio d’epoca, là dove la furia nichilista e illimitata del sistema non riesce ad autoregolarsi. Si parla tanto ad esempio di conciliazione fra lavoro retribuito e maternità, tuttavia sarebbe meglio pensare non tanto a riconciliare ma ad organizzare diversamente il lavoro, per lasciare tempo anche alla cura della vita.
Non si tratta quindi, in prima battuta, di vietare o fare leggi che bandiscano queste pratiche, ma di mettere in questione una società capitalistica che grazie alla tecnoscienza porta il mercato a dominare ogni ambito della vita cancellando le dimensioni più fragili e preziose del nostro essere al mondo.
La maternità è un luogo simbolico che apre riflessioni su ciò che sfugge alle leggi del mercato, su quell’indisponibile che mostra che un figlio non “spetta” a qualsiasi individuo indifferentemente. La maternità, cui la donna può liberamente acconsentire o meno, non è un “diritto”. Non a caso la femminista francese Sylviane Agacinski, senza mezzi termini, ha accostato i “ventri affittati” della maternità surrogata alla prostituzione. Come con la prostituzione la pratica dell’utero in affitto prospera dove c’è miseria, realizzando un nuovo tipo di colonialismo che si basa sullo sfruttamento del corpo delle donne secondo politiche integrate di marketing, produzione e consegna del “prodotto finito” ai legittimi “acquirenti”.
Tutto deve tradursi in merce, tutto si compra e si vende. Non è solo un business, ma una cultura, una tendenza generale che ci porta a ragionare in questi termini. Come insegna Luisa Muraro, oggi combattere davvero per la libertà significa quindi riuscire a gestire con saggezza la potenza tecnoscientifica e soprattutto difendersi dal mercato, che non è più progresso, ma una macchina che avanza con somma indifferenza per le questioni etiche decisive.
Eliminare le condizioni economiche di svantaggio, che spingono le donne in difficoltà ad accettare determinate pratiche pur di guadagnare qualcosa, è uno dei passi fondamentali. Con esso dobbiamo impegnarci per una rivoluzione culturale che restituisca ai corpi viventi una reale capacità di autodeterminazione, cosa impossibile dove le ingiustizie sociali prodotte dal neoliberismo rendono quasi impossibile scegliere “liberamente”.
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