Il caporalato nel Pontino è sistema, non eccezione: il processo per Satnam Singh non ferma lo sfruttamento
- Postato il 12 aprile 2025
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di Graziano Lanzidei
Satnam Singh ha iniziato a morire tra i filari, sotto il sole e la plastica. Il braccio tranciato da un macchinario, lasciato davanti casa su un furgone con l’arto in una cassetta, come si fa con la frutta guasta, con un macchinario rotto. Qualche giorno fa si è aperto il processo contro l’imprenditore che lo avrebbe impiegato in nero, senza sicurezza, senza dignità.
Ma non illudiamoci: il processo è relativo al singolo caso, non allo sfruttamento in generale, che intanto continua indisturbato nei campi, in Agro Pontino e nel resto d’Italia. Lì fuori in campagna, dove nessuno guarda davvero.
Da anni i sindacati lo gridano, i rapporti lo certificano: il caporalato è sistema, non eccezione. E anche quando la politica legifera, la realtà resta più forte delle norme. È così che si spiega il cortocircuito tra le parole e i fatti.
Nel 2016 è arrivata la Legge 199, per colpire non solo i caporali ma anche chi se ne avvale. È lì, nero su bianco. Poi nel Lazio, nel 2019, la Legge regionale 18, proposta da Marta Bonafoni e Alessandro Capriccioli, ha promesso indici di congruità, osservatori, premialità per le aziende virtuose. Ma l’Osservatorio regionale previsto all’art. 6 non è mai nato. È rimasto nel limbo delle buone intenzioni. E il regolamento attuativo? Ultimo aggiornamento datato 2020.
Nel frattempo le braccia si spezzano, i corpi si logorano, la vita si consuma: 107 persone sono morte sul lavoro nel Lazio nel 2024, diciotto in più dell’anno prima. La regione è maglia nera. E mentre i numeri crescono, i controlli restano pochi, i tecnici della prevenzione ancora meno. Secondo l’Inail e la Cgil, nel 40% dei casi a denunciare un infortunio è un lavoratore over 50. Ma molti non denunciano affatto: per paura, per ricatto, per necessità.
Nel VII Rapporto “Agromafie e caporalato”, la Flai-Cgil stima oltre 200mila lavoratori agricoli irregolari in Italia. Uno su tre è donna, spesso doppiamente sfruttata. Non solo economicamente, ma anche fisicamente e psicologicamente. Il Lazio, in questa classifica della vergogna, è sempre ai primi posti.
Lo sa bene Marco Omizzolo, che da anni studia il fenomeno nell’Agro Pontino e lo racconta mettendoci la faccia, ricevendo minacce, vivendo sotto scorta. È stato lui a denunciare per primo lo sfruttamento sistemico delle comunità sikh, a scendere nei campi con i lavoratori, a trasformare i dati in storie. Nel suo libro Sotto padrone c’è tutta la mappa del dominio: reclutamento, lavoro, ricatto, omertà.
Prima di lui, Alessandro Leogrande aveva percorso le stesse strade a sud: Puglia, Calabria, Basilicata. In Uomini e caporali aveva già raccontato come lo sfruttamento agricolo sia la forma più attuale di una servitù moderna, in cui il bracciante non è solo un lavoratore: è un corpo, un numero, una variabile da spremere.
È anche per questo che non basta un’aula di giustizia. Serve una rete. Serve uno Stato che faccia lo Stato, non lo spettatore. Serve una task force vera, con forze dell’ordine coordinate, ispezioni reali, permessi di soggiorno per chi denuncia. Serve superare i ghetti che non sono solo baracche ma interi pezzi di Paese dimenticato.
A livello locale, qualcosa si muove. In provincia di Latina è stata raggiunta un’intesa tra istituzioni e parti sociali per contrastare il caporalato e lo sfruttamento: un passo avanti, certo, ma senza controlli efficaci e risorse adeguate, rischia di restare lettera morta.
Come Balbir Singh, che ha avuto il coraggio di denunciare dopo anni di sfruttamento. Sedici ore al giorno, sette giorni su sette, per pochi euro. Per mangiare, racconta, rubava il cibo destinato ai maiali. Nelle aule di tribunale, ha ottenuto la condanna del suo padrone. La sua storia è raccontata in Il mio nome è Balbir, libro edito da People Edizioni. Eppure, il caporalato continua, non si arresta, non va a processo come sistema. Agisce ogni giorno, a bassa intensità, sotto la soglia della visibilità pubblica.
Forse non servono nuove leggi, ma basterebbe applicare davvero quelle che già ci sono. Forse la legalità non è una liturgia, ma una fatica quotidiana. Una cosa che si costruisce insieme, giorno dopo giorno. Senza retorica. E senza ipocrisie.
Perché lo sfruttamento non è finito. Non è imputabile. Non è un caso. È un sistema.
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