Il Botanical Turn. Quando l’arte contemporanea è sempre più vegetale
- Postato il 19 aprile 2025
- Arte Contemporanea
- Di Artribune
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Non occorre avere toni allarmistici per sapere che l’emergenza più grave, e vastamente avvertita dagli artisti di tutto il mondo, è quella del cambiamento climatico. Le preoccupazioni ecologiche sono nate con la rivoluzione industriale e sono state presenti nella sensibilità di molti già dalla metà dell’Ottocento: il libro di avvertimento Walden-Vita nei boschi del poeta americano Henry David Thoreau (1854) ha formato generazioni e sta alla base persino dei primi specchi portati nella natura da Robert Smithson e fotografati per un notorio articolo seminale sulla rivista Artforum (1968). L’ecologia alla quale si è iniziato a pensare dagli Anni Sessanta, e quindi tutta la Land Art, partiva però da presupposti filosofici che si opponevano a un’idea generale della natura imprevedibile (Lucrezio), divina (Spinoza), assoluta (Schelling) o matrigna (Leopardi); mancava ancora un allarme provato dalla scienza riguardo al nuovo atteggiamento estrattivo, dominante e lesivo da parte dell’uomo. Il primo serio Rapporto sullo stato del pianeta fu pubblicato dal MIT solo nel 1970. Oggi abbiamo economisti come Tim Jackson che avvertono anche in sedi ufficiali, dai convegni universitari americani al Parlamento Europeo, della necessità di sostituire l’accoppiata Growth/Wealth (crescita basata sul PIL) con quello Health/Care (salute centrata sulla cura).
Dalla Land Art al postumanesimo
È evidente che gli artisti di ora non sono semplici camminatori, come gli inglesi Richard Long o Hamish Fulton, o costruttori di strutture inerti in differenti deserti, come gli statunitensi Nancy Holt, Michael Heizer, James Turrell, Walter De Maria. L’atteggiamento delle nuove generazioni è più consapevole, più disperato, più informato che nel secolo scorso e cerca di fare opere che agiscano nell’ambiente ma non lo occupino in modo invasivo. Al massimo ci si ispira a esperienze come la Spiral Jetty di Smithson (1969/70), con la sua disponibilità a farsi modificare e anche annullare dal tempo, o al mimetismo nell’ambiente delle Settemila Querce (1982) di Joseph Beuys o ancora alla pazienza monacale con cui Wolfgang Laib raccoglie pollini e cere per farne quadri e ambientazioni. Ciò a cui si guarda ora sono soprattutto gli eventi che il regno vegetale sa generare da solo o con l’aiuto di programmi computerizzati, nel segno di un’autocritica dell’antropocentrismo e della convinzione che la Terra non abbia affatto bisogno dell’uomo. Le basi teoriche si mescolano spesso a un femminismo che si estende a tutti i deboli e che quindi si riversa nella natura, con madri celebri come Rosi Braidotti e Donna Haraway e un padre pazzo ma lungimirante come Timothy Morton; almeno due italiani sono costantemente citati, il fito-neurologo Stefano Mancuso con (The Revolutionary Genius of Plants) e lo storico dell’arte Giovanni Aloi (Botanical Speculations, 2021 e Vegetal Entwinements, 2023).
Arte contemporanea e vita vegetale
Da queste premesse e dalla voglia degli artisti di mescolarsi ai processi vegetali è nato In particolare un “Botanical Turn” che si precisa in mostre sempre più interessanti. A Non-History of Plants (2024), il raffinato catalogo dell’esposizione tenutasi lo scorso autunno a Parigi, curata da Victoria Aresheva e Clothilde Morette, espone artisti che lavorano sulla simbiosi, la metamorfosi e la mutazione delle piante, con fotografie perturbanti come quelle di Ali Kazma, Almudena Romero, Angelika Roderer, Gohar Dashti, Agnieszka Polska tra gli altri. Non stupisce che il prossimo padiglione temporaneo della Serpentine Gallery, che si attende per giugno 2025, sia stato affidato all’architetta bengalese Marina Tabassum, il cui progetto prevede di costruire una sorta di serra divisa in quattro parti in modo da crearvi una temperatura piacevole per gli umani ma, anche, per le piante che vi alloggeranno. Proprio la Serpentine Gallery, del resto, ha tenuto a battesimo la prima manifestazione di lunga durata su questo tema, General Ecology un contenitore nato nel 2019 a cura di Lucia Pietroiusti e Filipa Ramos al cui interno hanno luogo conferenze, podcast, mostre e altri progetti. Il lavoro più noto nato in General Ecology è probabilmente quello che Alexandra Daisy Ginsberg ha dedicato agli impollinatori, realizzato a nei giardini di Londra ma anche, per esempio, al Vitra di Weil am Rhein, il centro tedesco alle porte di Basilea dove si susseguono ricerche di design ecologico del territorio. Virtualmente, molti lavori sono ricreabili ovunque, poiché basati su algoritmi che presiedono alla scelta dei vegetali da giustapporre. Non si tratta di decisioni estetizzanti come nel caso, per esempio, di Patrick Blank, ma di sistemi, come nel caso di Ginsberg, pensati per gli occhi non-umani degli insetti che lo frequentano e di cui si vuole favorire l’attività impollinatrice.

L’ambiguità del mondo vegetale: non sempre il verde è amico
Alcuni artisti presentano il lato ambiguo e talvolta velenoso del mondo vegetale: come si è visto alla Biennale del 2022, Precious Okoyomon utilizza un rampicante invasivo particolare e legato alla storia della schiavitù; in altri casi ha creato serre in cui le farfalle sembrano lottare con le piante per lo spazio vitale. Nell’ultima Biennale di Lione, Ugo Schiavi ha creato un’installazione abnorme in cui le erbe rampicanti riguadagnavano la loro libertà e il loro invasivo disordine presso il museo abbandonato di Storia Naturale. Spela Petric sostiene di avere avuto insegnamenti sulla necessità di non idolatrare il verde, dato che in casi come la Cuscuta, una pianta incapace di fotosintesi, la predazione resta comunque carnivora. Rashid Johnson, visto da Hauser & Wirth, utilizza le piante archiviandole in grandi mensole come fossero già in estinzione e dovessimo tenerne un catalogo che sia anche un memento. Daniel Steegmann Mangrané coltiva microorganismi in gelatina, oltre a chiudere piante in serre dalle aree biomorfe e raccogliere erbari improbabili. Hubert Duprat nutre un tipo di verme che, per crearsi il bozzolo, ingloba bacche e fogliame, ma anche perle, pietre preziose, oro, tutto ciò che avidamente gli serve per rendere più solido il suo corpo.
Le radici del Botanical Turn
È ovvio che tutto ciò non nasce adesso, e oltre agli esempi lontani ci sono stati esperimenti subentranti dagli Anni Ottanta e Novanta: la riappropriazione di terra, fango e fiori nelle Siluetas di Ana Mendieta, a mostrare un’unità corpo-natura che abbiamo dimenticato; i campi coltivati a grano da Agnes Denes vicino ai cantieri, da New York a Milano, per rammentare che ogni suolo costruito è stato prima terra fertile; le serre forzate da luci artificiali o in spazi contratti di Meg Webster, per parlare di come le piante resistano anche alle condizioni più infami; il recupero del riso originario thailandese presso The Land di Rirkrit Tiravanija (dal 1998) nell’ottica del recupero di antiche pratiche lavorative e sociali legate a una coltivazione che oggi non fa profitto; le delicate composizioni di sterpi, fiori e reticoli vegetali di Christiane Lohr, con un accento sull’interazione uomo-natura e la fragilità dei risultati; fino alle molte coltivazioni condivise il cui surplus viene diviso tra tutti, attraverso la consuetudine del lumbung, raccontate dalla documenta dei Ruangrupa. Già nella dOCUMENTA(13), del resto, René Gabri e Ayreeen Anastas avevano proposto il tema della produzione autarchica e organica del cibo, tema toccato spesso anche dalla slovena Marjetica Potrč. Purtroppo, le nostalgie di un’altra ruralità restano, appunto, rimpianti e denunce, ma non portano a sconfiggere i monopoli della monocultura.
Il postumanesimo come guida teorica
Esiste poi un mondo di creatori di ascendenza felicemente postumana che manipolano soprattutto funghi, per esempio creando fibre tessili per la moda o fotografando e disegnando il mondo fantasmagorico dei miceti: Yasmine Ostendorf-Rodriguez ha pubblicato il catalogo Let’s Become Fungal (Amsterdam 2023) che porta l’attenzione su artisti come Francisca Alvarez Sánchez, Carolina Caycedo, Annalee Davis, Sofia Gallisá Muriente e che ci spiega come le varie specie fungine reagiscono al collasso climatico. Anicka Yi è stata la più esplicita nel mostrarci la bellezza giocosa, mostruosa, catastrofica, forse mortale e forse invece salvifica delle metaspore che frequentano la nostra stessa aria. Anche in Italia molti stanno lavorando su questo versante, con una mostra e un volume a cura di Bertolino, Comisso, Guida e Pioselli su Bright Ecologies. Caretto/Spagna (2024), nonché il manifesto Art for Radical Ecologies (Venezia, 2024) curato da Baravalle, Braga, Riccio e Timeto. È lecito attendersi molte riflessioni sul tema della natura intrecciata alle reti urbane nella prossima Biennale Architettura, che apre a maggio per la cura di Carlo Ratti. Sappiamo da Voltaire che “coltivare il proprio giardino” è una ricetta per la vita felice. Ma in questo primo quarto di secolo, e sempre più intensamente, gli artisti citati e i moltissimi che mancano all’appello stanno indicando di non coltivarlo per odorarne le rose, in vista di un benessere sensuale e interiore, ma nell’ottica della sola via di scampo per proteggere un ecosistema che sopporti la specie umana.
Angela Vettese
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L’articolo "Il Botanical Turn. Quando l’arte contemporanea è sempre più vegetale" è apparso per la prima volta su Artribune®.