I top e I flop della Milano Design Week 2025
- Postato il 14 aprile 2025
- Design
- Di Artribune
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Mentre arrivano i comunicati stampa di chiusura con le consuete formule di rito e i piedi di chi ha scarpinato per giorni tra un distretto e l’altro tornano al loro volume normale, ci fermiamo un attimo per riflettere sulla qualità delle cose che abbiamo visto in questa edizione 2025 della settimana del design più importante al mondo. Prima considerazione: la Milano del design è viva e vitale, ma nessuno ha mai pensato seriamente che non lo fosse. Le energie ci sono, anche se spesso è prevalso il disimpegno. Seconda considerazione: bisognerebbe fare una riflessione sulla fruibilità dell’evento per i professionisti dell’architettura e del design, che rischiano di affogare in un mare di proposte fondate sul marketing e spesso neppure attinenti al loro settore e di rimanere invischiati in lunghe code, rese ancora più lunghe dal fenomeno dei “cacciatori di gadget” fomentati dagli influencer (che sia il “fenomeno Roccaraso” applicato al progetto?).
Top: i luoghi ritrovati

Le proposte migliori che abbiamo visto in questa Design Week sono quelle in cui il contenitore e il contenuto si complementavano, e valorizzavano, a vicenda. Il “gioco” di abbinare la riscoperta di architetture affascinanti del passato, meglio se solitamente inaccessibili al pubblico, a pezzi di design contemporaneo (e non) è tutt’altro che nuovo e continua a funzionare benissimo. In presenza, però, di due requisiti fondamentali: deve esserci un filo tematico tra il luogo e ciò che viene presentato, e il progetto deve essere solido, anzi solidissimo. È il caso, per esempio, del lavoro di Dedar su cinque opere di Anni Albers, una delle designer tessili più talentuose e più influenti del Novecento, uscita dalla scuola del Bauhaus, presentato insieme a fotografie e documenti d’epoca al sedicesimo piano della Torre Velasca, delle lampade di Micheal Anastassiades leggere, anche visivamente, come aquiloni messe in scena nelle sale della Fondazione Danese insieme ai vasi-scultura di bambù di Bruno Munari, e delle riedizioni degli eredi trasformisti di Vico Magistretti di Campeggi presentate nell’androne della “sua” Torre al Parco (dei quali abbiamo già parlato qui: LINK). Tutte operazioni che fanno venire una tremenda nostalgia della Milano degli Anni Cinquanta, ancora fresca e modernissima a sette decenni di distanza (i nostri nipoti potranno dire lo stesso di questi Anni Venti del Duemila? Non ci metteremmo la mano sul fuoco), anche a chi per ragioni anagrafiche non l’ha vissuta. Effetto “wow”, ma non fine a se stesso, anche per Two-Fold Silence, la mostra che ha ripercorso il cammino del giovane brand 6:AM Glassworks, una delle realtà più interessanti nel panorama milanese per la sua ricerca al crocevia tra design, artigianato e architettura, nel contesto straniante degli ex-bagni pubblici della Piscina Cozzi, tra sontuosi mosaici e docce abbandonate.
Top: “Staging Modernity”, la performance di Cassina

Cassina in quanto a profondità, intensità e bellezza batte tutti, proponendo una performance immersiva al Teatro Lirico Giorgio Gaber che celebra il 60° anniversario della Collezione Le Corbusier®, Pierre Jeanneret®, Charlotte Perriand®. Il duo italiano Formafantasma – con la direzione di Fabio Cherstich, testi di Emanuele Coccia, Andrés Jaque e Feifei Zhou (terriStories) – ha infatti presentato una pièce teatrale e un’installazione che rende omaggio alla produzione avanguardista dell’azienda, invitando il visitatore a riflettere su una visione che si distacca dall’industriale e dal razionale per abbracciare un’ecologia naturale e selvaggia. “In sostanza, ‘Staging Modernity’ è un omaggio critico alla visione rivoluzionaria di Le Corbusier, Pierre Jeanneret e Charlotte Perriand, offrendo al contempo uno spazio aperto a nuove riflessioni e interpretazioni [..] Un progetto che mira a sfidare le narrazioni convenzionali sulla modernità, la domesticità e il design mentre esamina le profonde implicazioni culturali di queste idee oggi.” Attento e provocatorio, questo intervento – che adotta come fondamento la pianta del Salon d’Automne, pietra miliare nella storia dell’architettura e del design moderni – ha messo in discussione la dissonanza tra gli ideali modernisti e il mondo contemporaneo, reimmaginati non come una visione incontaminata di perfezione industriale, una machine à habiter, ma come qualcosa di più aperto e poroso: lo spazio era infatti popolato da riproduzioni animali, abbattendo il confine tra ciò che è considerato “umano” e “non umano”, o tra il moderno e il selvaggio.
Top: “ROMANTIC BRUTALISM” e le altre collettive ben curate

In un ambiente in cui spesso a prevalere è il marketing e non lo spessore culturale, emergono con forza le operazioni in cui, invece, questo mind setting è ribaltato. Le proposte cioè in cui si evince con evidenza la presenza di un regista, un curatore capace che sa di cosa sta parlando. Lo abbiamo visto con Cassina e i Formafantasma, ma meritano di essere citate anche Federica Sala, che in questa edizione ha curato diverse cose, tra cui la bellissima ROMANTIC BRUTALISM per Visteria Foundation, mostra che celebrava il centenario della partecipazione della Polonia all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi del 1925 mettendo in scena l’artigianato e il collectible design polacco e permettendo ai visitatori di esplorare l’evoluzione dell’estetica del paese dell’Est Europa dalla tradizione alla contemporaneità. Per cogliere appieno l’importanza della curatela basta avvicinare questa collettiva ad altre, spesso insipide, rassegne dedicate alla produzione di singoli paesi che abbiamo potuto vedere nei giorni scorsi: la differenza di caratura è palese. I Simple Flair, con l’operazione collettiva di C.o.n.v.e.y, progetto nato per creare un sistema che metta in contatto brand contemporanei e player di riferimento con l’obiettivo di accelerarne la crescita, che per la sua terza edizione, ha conquistato il centro della città svelando un’inedita location nel cuore del Porta Venezia District. E SPACETIME a journey through time inspired by timeless design, la piccola ma raffinata mostra sugli orologi in cui 24 designer internazionali hanno interpretato il tema, ospitata da Riviera e Lapalma e co-curata con Jamie Wolfond.
Top: Labò, via dalla pazza folla

Il progetto a trazione francese curato da The Design Blender, quest’anno alla sua terza edizione, ha spinto molti a uscire dalla zona di comfort dei quartieri più centrali per avventurarsi fuori dalla circonvallazione, in un angolo della Barona in cui la metropolitana non è a portata di mano e bisogna contare sui mezzi di superficie. Ne è valsa la pena, perché negli spazi affacciati su un cortile comune della Fondazione Rodolfo Ferrari e della SPA – Società Prodotti Antibiotici abbiamo trovato un contesto a misura d’uomo e senza installazioni acchiappa-clic dove poter curiosare a passo lento, scoprendo con una sorta di serendipità un mix di design da collezione, biodesign e progetti a sfondo sociale in arrivo soprattutto (ma non esclusivamente, ci abbiamo trovato anche degli italiani, per esempio lo studio genovese DLA design lab con i suoi divani tenuti insieme dalle cinghie dei camalli del porto e i maceratesi di Màttoli con una collaborazione con Sfreedo fatta per valorizzare gli scarti di marmo e pietra) dall’area francofona. Interessantissimo, in particolare, il racconto dello Star Homes Project, con 110 case anti-malaria costruite in alcune aree rurali della Tanzania, fatto attraverso una mostra prodotta dalla Royal Danish Academy che oltre a presentare uno spaccato di una di queste abitazioni progettate per ridurre le possibilità di contagio porta le voci dei loro abitanti e una raccolta di dati utili a capire meglio le ricadute dell’operazione.
Top: il Salone come producer culturale

Cambiano i tempi e cambiano anche le fiere. Se il modello tradizionale, basato sull’esposizione dei nuovi prodotti negli stand e sugli incontri d’affari, è messo in crisi un po’ dappertutto dalla velocità con cui le informazioni circolano e si diffondono, una soluzione può essere cambiare parzialmente pelle e dedicare una fetta dei propri sforzi al fare cultura, fornendo chiavi di lettura sul presente. Il Salone del Mobile quest’anno lo ha fatto egregiamente mettendo insieme un programma di talk solido e interessante e coinvolgendo personalità anche non strettamente di settore che, però, hanno qualcosa da dire, da Bob Wilson a Paolo Sorrentino ed Es Devlin. La premiatissima set designer britannica, in particolare, ha firmato una delle installazioni più riuscite di tutta la Design Week, la Library of Light allestita nel Cortile d’onore della Pinacoteca di Brera, che per fortuna si fermerà un po’ più a lungo. Smontarla sembra un vero peccato, perciò la buttiamo lì: esiste la possibilità per la città di “adottarla” e renderla permanente?
Flop. Le code e la corsa ai gadget

Che durante la Design Week si debbano fare code per accedere in alcune location non è una novità. Quest’anno, però, il fenomeno ha assunto dimensioni al limite del paradossale. Perché il punto non è l’affluenza, merito senz’altro di una strategia di comunicazione social particolarmente efficace, ma sono semmai i metodi utilizzati dai brand per gestire questi flussi fuori controllo. A vincere è stata infatti la ricerca del numero di ingressi, il quanto, la metrica, il dato raccolto (con la tappa obbligata di registrazione tramite QR-code), e non la tipologia di pubblico (con la stampa spesso rimbalzata). Il risultato? File infinite di persone, con tanti “scrocconi”, spesso interessati solo a un selfie o al gadget regalato dal marchio (emblematico lo sgabellino pieghevole regalato da Etro, in 5 THREADS, 40 YEARS, la mostra-tributo per celebrare i quarant’anni di Arnica, il tessuto iconico della maison, messo in vendita poco dopo su Vinted a cifre dai 350 euro in su) e molti altri invece davvero interessati che hanno dovuto rinunciare alla visita. Peccato.
Flop: l’effetto “Fashion Week” fuori stagione

Anno dopo anno, i grandi e potenti brand della moda hanno eroso spazio d’azione all’interno del già nutritissimo palinsesto del Fuorisalone, proponendo loro mostre o collaborazioni in location d’eccezione e palazzi meravigliosi. Niente di male? Forse sì, invece. Perché questi eventi hanno generato nel comparto bolle speculative (questi brand possono permettersi tutto, o quasi) e una narrazione spesso controproducente al sistema stesso, polarizzando in modo disequilibrato l’attenzione mediatica e di pubblico. La modalità è quella dell’asso piglia tutto, di chi non si accontenta della sua fashion week, di chi deve esserci anche se forse potrebbe farne a meno. Con questo non vogliamo dire che alcune di queste proposte non siano state di valore – gli Objets Nomades di Louis Vuitton a Palazzo Serbelloni o La Prima Notte di Quiete di Dimorestudio per Loro Piana ad esempio, di qualità entrambi, mentre Gucci Bamboo Encounters nei chiostri di San Simpliciano decisamente meno – ma riconoscere che il focus sembra essersi drammaticamente spostato, invocando quei fenomeni simili a processioni laiche e ossessioni reverenziali che stanno generando mostri.
Flop: tanti impegni, poco impegno

Nella solita gara a chi stupisce di più, ci sembra che le tante realtà che compongono il sistema design quest’anno siano state più restie del solito a incorporare nel loro discorso i problemi del presente: i venti di guerra, i populismi di varia natura, la gentrificazione galoppante che colpisce Milano come le altre grandi città europee, le emergenze climatiche e sociali. Per fortuna si potevano trovare qua e là delle “pietre di inciampo” o delle “isole di riflessione, luoghi mentali dove esercitare il sacrosanto diritto al dubbio” (la definizione non è nostra ma del sempre lucido Giulio Iacchetti, in veste di curatore della mostra Contro la guerra. 7 designer per EMERGENCY alla Triennale): progetti espositivi che non assecondano la pigrizia mentale del visitatore distratto, in transito tra un’inaugurazione e uno spritz, ma costringono a guardare in faccia la realtà o una parte di essa non necessariamente gradevole. Oltre alla mostra già citata, che appunto non fa sconti a nessuno dichiarando fin dall’ingresso che la guerra si fa con le armi, e che le armi sono pensate e progettate da designer – qui riecheggia Fabrizio De André e il suo “anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti” – vale la pena menzionare la ricerca sugli arredi carcerari di Dropcity e il lavoro di Philippe Starck sulle bandiere della Hate Unlimited Korporation, una ipotetica milizia di odiatori professionisti (all’Orto Botanico di Brera nella collettiva di Interni).
Flop: zona Tortona

Il Fuorisalone è un paesaggio carsico in continua evoluzione e la sua geografia si ridefinisce di anno in anno. Nel borsino delle zone che salgono e di quelle che scendono, dedichiamo due parole a Zona Tortona, là dove tutto è cominciato, che ci sembra in caduta libera da tempo e che quest’anno, per la prima volta, ci è sembrata anche meno frequentata. Le proposte di qualità non mancavano, per esempio le riedizioni di mobili progettati da Charlotte Perriand in collaborazione con Saint Laurent e l’esplorazione delle “parentele” tra umano e non umano da BASE Milano, però è innegabile che sia un po’ sceso tutto quel fermento spontaneo di showroom e attivazioni temporanee di spazi che nel corso degli anni era nato intorno alle location principali. Senz’altro non aiuta il fatto che il quartiere non abbia una regia unica – un fattore invece importante del successo di altri, da Brera a 5Vie e all’emergente Porta Venezia – ma sia invece frammentato in una serie di iniziative e percorsi incapaci di, o non motivati a, coordinarsi e fare rete.
Flop: la sovrapposizione con Vinitaly

Ancora una volta, il Fuorisalone è andato a sovrapporsi a Vinitaly, prima fiera del vino e dei distillati (rivolta agli operatori del business sui mercati internazionali ma anche ai wine lover) tenutasi a Verona tra il 6 e il 9 aprile. È un peccato che non ci sia stato nemmeno quest’anno un coordinamento per evitare la concomitanza, che danneggia sia la manifestazione vinicola (già gravata dallo spettro dei dazi) sia l’appuntamento del design più importante d’Italia.
Giulia Marani e Giulia Mura
L’articolo "I top e I flop della Milano Design Week 2025" è apparso per la prima volta su Artribune®.