“I ragazzi si innamorano dell’AI perché così non rischiano di soffrire per un rifiuto. Ma tutto questo ha conseguenze per il cervello”: il monito di Daniel Lumera

  • Postato il 15 agosto 2025
  • Salute
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Poco più di 10 anni fa, il protagonista del film Her (Lei) si innamorava di un sistema operativo molto sofisticato che sapeva interagire in modo intelligente con l’utente e imparare dal dialogo amoroso che si sviluppava nel tempo per rispondere sempre meglio ai suoi bisogni affettivi. Un futuro che ormai è quasi presente, visto che sempre più persone, soprattutto adolescenti, interagiscono con chatbot non solo per ragioni di studio ma anche per cercare compagnia. E una piccola ma significativa parte di questi arriva addirittura a innamorarsene.

Per esempio, una ricerca condotta recentemente su 1.060 adolescenti tra 13 e 17 anni da Common Sense Media, un’organizzazione non profit statunitense fondata nel 2003 da James Steyer, ha rilevato che il 72% ha usato almeno una volta una chatbot IA con valenza “emotiva”. Il 52% lo fa regolarmente, e l’8% di questi con tono flirtante o sentimentale. Tra gli utenti, il 33% preferisce confidarsi con l’IA su temi seri rispetto agli amici reali, mentre il 34% ha sperimentato sentimenti di disagio per risposte inappropriate. In pratica, nella fase più delicata dello sviluppo psichico di un ragazzo si rischia di dover fare i conti con un nuovo soggetto che non si trova nel mondo fisico, ma produce effetti concreti nella vita di chi lo interpella.

L’esperto: “I ragazzi non vogliono più rischiare”

E allora, cosa accade in un ragazzo che si lega a un sistema di intelligenza artificiale, al punto tale da innamorarsene? Come spiegare questa nuova tendenza? “Attraverso l’incapacità di distinguere sempre di più l’immaginazione dalla realtà – ci risponde Daniel Lumera, biologo naturalista, docente e autore, tra gli altri, di saggi su dinamiche relazionali (l’ultimo è Ti lascio andare, Mondadori) ed esperto nelle aree del benessere -. È una tendenza che già veniva impiegata dal nazismo: Paul Joseph Goebbels diceva che era sufficiente raccontare una menzogna in maniera assertiva e insistente, perché diventasse realtà. Questo è un principio che regola anche il nostro cervello. Proviamo per esempio a chiudere gli occhi e immaginare una scena di sesso o culinaria: il nostro corpo inizia subito a cambiare, produce ormoni, aumenta la pressione e il battito cardiaco varia. E da qui il cervello non distingue più immaginazione e realtà.
Dato che i social creano una forte tendenza alla dipendenza, le certezze del mondo esterno si sgretolano. Le nuove generazioni non vogliono più rischiare una relazione reale, potenzialmente molto più pericolosa, con insidie, insicurezze, possibilità di essere rifiutati o feriti. Allora ci si rifugia in un mondo più ‘protettivo’ quanto fasullo, che dà comunque degli stimoli ma con molto meno rischio. Per questo è quantomai necessaria un’educazione al discernimento tra ciò che è reale e ciò che è illusorio”.

La paura di essere giudicati può essere una ragione che spinge i giovani a rifugiarsi nell’intelligenza artificiale?

“Non credo sia solo questa paura, ma tutta una serie di timori molto più radicali: di essere rifiutati, non essere all’altezza, non essere degni dell’amore altrui, essere incompresi e abbandonati, della solitudine… Tutti questi aspetti fanno parte del percorso formativo della vita, per crescere, sviluppare virtù, pazienza, profondità, empatia e forza per affrontarli. Tuttavia oggi questi ‘scossoni’ sono stati perduti. Le nuove generazioni sono molto più fragili, quindi si rifugiano in mondi artificiali per l’incapacità di affrontare e gestire il reale con le emozioni e i fallimenti, che, invece, sono le lezioni preziose da imparare da questa vita”.

Chiedere senza dare

Inoltre, manca una reciprocità. Si cercano le chatbot per ricevere attenzioni senza restituire niente. Con quali ripercussioni nello sviluppo della loro personalità?
“L’assenza di reciprocità ha conseguenze molto profonde a livello psichico, relazionale e sociale. Innanzitutto denota un’assenza di maturità nella comprensione della natura dell’amore. Partiamo dal bambino piccolo, che sperimenta l’amore incondizionato attraverso il ricevere esclusivo: egli piange e la madre gli dà attenzioni, presenza e cura. Poi si cresce e si passa a una fase in cui l’amore diventa dare per ricevere: ti do attenzione, fedeltà, lealtà e presenza, se anche tu me le dai, in uno scambio biunivoco. Poi cresciamo. Alcuni di noi riescono a superare questa fase e sperimentano l’amore come un dare, come appunto quello della madre verso il figlio. E, infine, si arriva a una fase ancora più evoluta dell’amore, che diviene uno stato di coscienza attraverso la consapevolezza dell’essere. Tutto si fa con amore, per amore, nell’amore. Se i ragazzi non crescono mai e sperimentano l’amore in una fase esclusivamente infantile, dove manca la reciprocità e resta solo la richiesta, non c’è più l’esperienza del rischio. Ciò che ci spaventa è metterci realmente in gioco nella vita. Ma è solo così che si cresce: cadendo, fallendo, entrando in contatto con le proprie parti oscure. L’altro diventa uno strumento per integrare i propri sé rinnegati e le proprie ombre. Ecco, è questo che sta venendo a mancare”.

Verso l’assenza di contatto fisico?

Per non parlare poi dell’assenza di contatto fisico…
“Questo tipo di assenza è un elemento devastante, perché l’essere umano ha bisogno del tocco. Ci sono esperimenti scientifici che documentano come i bambini piccoli nutriti negli orfanotrofi dalle nutrici senza alcun contatto fisico, coccola, carezza o calore abbiano sviluppato un sistema immunitario molto più debole, oltre ad atteggiamenti sociali molto più freddi, con mancanza di empatia e assenza di virtù a livello comportamentale. Questo perché il tocco è cibo e il calore di un’altra persona, la sua vicinanza fisica, quel tipo di reciprocità e di relazionalità intima che arriva a entrare in contatto con la pelle di un’altra persona; è la nostra prima casa, rappresenta le mura domestiche che delimitano uno spazio all’interno del quale ci sentiamo assolutamente al sicuro. Possiamo sperimentare noi stessi, manifestare rabbia, aprirci, dare voce alla nostra intimità. Ecco perché è importante il contatto fisico. Se, invece, c’è un impoverimento di questo aspetto profondamente umano e reale, si creeranno disfunzionalità importanti non solo in termini caratteriali, ma anche comportamentali e sociali. Assisteremo a una trasformazione sociale nelle prossime generazioni che porterà a manifestazioni irriconoscibili, epocali e pericolose”.

Genitori e scuola, privi di strumenti?

Genitori e insegnanti appaiono ancora disorientati all’avanzare di queste tecnologie e di fronte alla costruzione di un concetto, quello dell’onlife – che indica l’assenza di un confine netto tra reale e virtuale -. Quali soluzioni e approcci suggerire per evitare che i ragazzi si “perdano” in questo mondo virtuale?
“Il primo suggerimento è di introdurre lezioni sul digitale a scuola e associare l’artificiale a elementi naturali, come portare gli studenti e le scuole nei boschi, nella natura, per aiutare i ragazzi alla bio-riconnessione, a non perdere il contatto con i cicli naturali. Le pareti delle nostre case sono state edificate per una sorta di sentimento di paura verso la natura indomita e le città sono diventate un muro di separazione con ciò che è naturale. Oggi ci relazioniamo con la natura in termini di dominio e di controllo, non di armonia e conoscenza. Per questo il mio consiglio è, innanzitutto, quello di portare il bosco dentro la casa, cioè riempire le nostre abitazioni di elementi naturali, di verde, per il benessere della psiche e del corpo. E poi spingerei affinché gli edifici scolastici fossero edificati nei boschi.

In tutto questo, che ruolo avrebbe la IA?

“Cercherei di gestirla solo ed esclusivamente a contatto con la natura, in modo che si percepisca il vincolo armonico e non si crei distanza. Inoltre, introdurrei nelle scuole la pratica meditativa, che ci insegni a creare un contesto interno di disconnessione dalla tecnologia, una disconnessione rigenerativa che faccia prendere ai ragazzi confidenza col silenzio, respiro, l’ascolto, gli elementi naturali, e allo stesso tempo li porti a sentire se stessi, la vita, il reale, ciò che c’è, anziché le idee della mente e i costrutti del mondo artificiale. Quindi questi due elementi, natura e meditazione, sarebbero da introdurre nei programmi educativi come formazione non solo per i ragazzi, ma anche per tutti gli insegnanti, affinché tutti recuperino l’aspetto umano”.

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Il Fatto Quotidiano

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