I piedi feriti della rotta balcanica, l’associazione Linea d’Ombra: “Da 10 anni a Trieste curiamo i migranti in transito”

  • Postato il 3 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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“I migranti di passaggio a Trieste non venivano fermati dalla polizia, ma lasciati nell’area del vecchio porto austriaco, ex magazzini abbandonati. Con Lorena, mia moglie, un giorno di qualche anno fa ci siamo chiesti come potessero sopravvivere. Siamo andati da loro, inizialmente erano diffidenti. Ricordo che Lorena prese un ragazzino per mano ed esercitando una dolce violenza gli tolse le scarpe e le calze. I piedi erano pieni di ferite infette. Ha cominciato a curarle. Quel gesto è stato l’inizio della nostra attività, che presto si è allargata grazie alle cospicue donazioni delle persone (riceviamo soldi solo da singoli)”. Oggi Linea d’Ombra – il nome viene dal racconto di Conrad: ci occupiamo infatti di persone vivono nell’ombra” – è un’organizzazione di volontariato fondata dalla psicoterapeuta Lorena Fornasir e dal professore di Filosofia Gian Andrea Franchi, entrambi in pensione.

Cure, cibo ma anche socialità

Nata formalmente nel 2019, ogni sera dalle 19 si riunisce in piazza – ribattezzata “Piazza del mondo” – per fornire ai migranti un primo intervento sanitario, vestiti e cibo – grazie anche alla rete dei “Fornelli resistenti”, gruppi che arrivano con pentole e fornelli per cucinare. “Tante sono le persone che vengono a portare materiali, a vivere e a solidarizzare”, spiega Franchi, una vita nei movimenti della sinistra di base degli anni Sessanta-Settanta, “perché oltre all’aspetto sanitario e del vestiario fondamentale è anche la socializzazione. Pensi che alcuni mesi fa una ragazzina di Trento ha voluto festeggiare il compleanno con noi”.

In piazza passano anche scout e studenti per discutere e riflettere sul fenomeno migratorio. Ma il lavoro principale è sempre sui corpi. “La cura dei piedi feriti rappresenta non solo un intervento sanitario, ma anche un gesto simbolico. Per me”, spiega il professore, “è stata un’esperienza potente quella di partire non da un linguaggio, non da un sistema di pensiero, ma dall’occuparsi dei bisogni fondamentali di un corpo ferito e affamato”.

Prima della parola, partire dai bisogni

L’esperienza di Franchi e Fornasir non nasce, in verità, a Trieste ma a Pordenone, nel 2015. “La prima rotta balcanica arrivava all’interno del Friuli, scendendo dall’Ungheria e dall’Austria. Nell’inverno del 2015, in questa piccola città, abbiamo cominciato a vedere un tipo di arrivi nuovi: l’incontro con corpi violentati, feriti, malati affamati. Profughi e fuggiaschi dalle caratteristiche nuove e sconvolgenti: io non avevo mai visto nella mia lunga vita fame negli occhi di una persona”, racconta. “Così abbiamo capito che la prima cosa da fare non era partire dal discorso, dall’uso della parola, ma bisogni del corpo”. Il piccolo gruppo che si è formato introno a Lorena e Gin Andrea incontra persone al limite della sopravvivenza, “tantissime volte abbiamo chiamato l’ambulanza; una volta Lorena ha dovuto fare un massaggio cardiaco”.

Nel 2018 si trasferiscono da Pordenone a Trieste per motivi personali: proprio negli anni in cui la rotta, dopo la chiusura dei confini di Austria e Ungheria, si era spostata verso il sud dei Balcani. È il 2018 e la coppia va anche in Bosnia per cercare di comprendere meglio ciò che accadeva. “La Bosnia era piena di migranti, che attraversavano i boschi al confine con la Croazia, dove c’erano veri e propri accampamenti: ricordo un villaggio afgano di forse 300 persone con famiglie e bambini”.

Rotte non più sicure di quelle sui barconi

Afghani, pakistani in prevalenza, ma anche provenienti dal Medio Oriente e dall’Asia (India, Bangladesh, Nepal). Una rotta solo in apparenza più sicura dei barconi: “Purtroppo”, racconta Franchi, “anche qui ci sono molti morti di cui non si parla, certe volte i ragazzi ci mostrano sul cellulare le foto di compagni scomparsi: abbiamo ingrandito alcune foto per esporle nella piazza dove ci vediamo tutti i giorni”. Le storie sono drammatiche: c’è chi dopo mille traversie è riuscito a entrare in Bulgaria e ad attraversare le frontiere si Serbia e Bosnia, ma poi è stato catturato e rimandato indietro. Chi è entrato in Turchia dall’Iran per essere respinto ben 18 volte, dalla polizia turca, tra le più feroci. “Un ragazzo di 24 anni, uzbeko, una delle etnie più perseguitate in Afghanistan, laureato in Economia, prima dei talebani lavorava per il ministero degli Interni, dopo ha dovuto per la prima volta viaggiare in modo illegale per salvarsi la vita. Per entrare in Europa è stato torturato, umiliato, disumanizzato”, racconta il professore.

I migranti di cui l’organizzazione si occupa sono quelli di passaggio per altri paesi europei: circa il 70-80% diretti verso il Nord Europa o verso la Francia. Per questo prefettura e questura non fanno controlli stringenti. Il sindaco Roberto Dipiazza, invece, ha fatto chiudere con lastre di acciaio il sottopassaggio della piazza dove l’associazione si rifugiava quando pioveva. “In piazza però la polizia non viene mai”.

Fare rete con altre associazioni

Negli ultimi anni la vita dei migranti si è fatta più complessa. “Forse le condizioni fisiche sono leggermente migliorate, ma solo perché si è sviluppato un sistema a pagamento con forme di ricatto alle famiglie per chiedere sempre maggiori soldi. Invece”, nota il professore, “c’è stato un peggioramento dei comportamenti degli stati di confine, Croazia, Grecia, Bulgaria, le cui polizie si comportano spesso in maniera violenta. Nella rotta ci sono anche numerosi morti di cui non si parla. Uno degli aspetti terribili di questa situazione è appunto quello delle persone scomparse nel nulla: per la cultura islamica questa non poter fare neanche il rito del funerale, è la cosa peggiore”.

Quest’anno Linea d’Ombra compie dieci anni di attività. Il bilancio? “Positivo e negativo”, risponde Franchi. “Positivo perché si è creata una vera rete, negativo perché tocchiamo con mano continuamente storie di sofferenza e violenza. In Bosnia abbiamo visto un ragazzo morto di freddo d’inverno, la polizia croata, respingendolo, gli aveva tolto anche i vestiti. A molti rompono i cellulari, sanno che senza non riescono neanche a capire dove sono”.

L’organizzazione collabora anche con altre associazioni, laiche o cattoliche. “In verità con la Caritas fino a due anni fa i rapporti non erano buoni, poi c’è stato un cambio di vescovo, che è venuto a trovarci e a conoscerci e poi ha aperto una sala a duecento metri dalla piazza per circa trenta persone. Sei mesi fa un altro locale per settanta migranti con poltrone per sdraiarsi e dormire. Un’altra associazione cattolica, San Martino al Campo, gestisce un centro diurno per i transitanti, dove ci sono docce e bevande calde e un servizio sanitario con infermieri e medici. Da quest’anno, arriva anche un’associazione internazionale – “No name kitchen” – che fa degli interventi notturni, dato che i migranti arrivano anche di notte e di primo mattino. Ma in piazza a occuparci quotidianamente dei bisogni fondamentali dei migranti dalle 19 in poi, conclude Franchi, “siamo soprattutto noi”.

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