I miei cani e tutti gli altri, quanto è bello l’ostinato movimento del tempo
- Postato il 25 maggio 2024
- Di Il Foglio
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I miei cani e tutti gli altri, quanto è bello l’ostinato movimento del tempo
Annoiata e sola, senza fratelli né sorelle, la piccola Sandra Petrignani vede nei cani, in particolare in quello che sarà il suo primo cane, Rocky, un barbone bianco di taglia grande, la possibilità di unire le solitudini. Dare forma a una relazione che sarà una profonda e tacita intesa di affetto e compagnia. I cani per Sandra Petrignani assumono così la funzione di specchio dell’esistenza, che illumina mutando ogni possibile e nostalgico rimpianto da: cosa avrei potuto fare e cosa avrei potuto dire, in una meditazione su ciò che è stato e come tale esiste sempre, seppure in uno spazio e con una struttura diversa. Autobiografia dei miei cani (che inaugura la nuova Gramma di Feltrinelli, con la guida di Giuseppe Russo e Roberto Cotroneo) se da un lato si apre con una dichiarazione di obbligata infedeltà alla verità dall’altro sceglie proprio chi come i cani vive - seppur con non pochi moti di ribellione - la fedeltà come aderenza all’esistenza. Parlare dei propri cani è una possibilità di oggettivo racconto di sé che Sandra Petrignani coglie, un po’ sfuggendo dalla malinconia e un po’ arrendendosi alla bellezza di una vita trascorsa liberamente in cui ogni passione è valsa un movimento.
I cani come compagnia, ma anche come amore, quello assoluto che sale da loro fino agli uomini incontrati, desiderati quanto detestati. Si passa dal padre e si arriva agli amanti e ai compagni. Petrignani non insegue, ma sembra più che altro volere partecipare, togliersi di dosso l’atavica e fastidiosa noia per vivere pienamente (e in un certo qual modo anche politicamente) tutto quello che è prima ancora che possibile, desiderabile. Indagatrice delle vite altrui da Marguerite Duras a Natalia Ginzburg, con Autobiografia dei miei cani Sandra Petrignani trova la voce per se stessa e lo fa cogliendo la possibilità di evitare lo struggimento dell’abbandono. Il dolore compare infatti subito nel libro, ma anche subito si esaurisce, chiarendo i termini di un discorso sì rivolto al passato, ma che pretende il presente inteso come quel movimento ostinato far esistere sé e gli altri. L’autrice offre nell’osservazione dei propri cani che attraversano la sua vita, passandosi di volta in volta il testimone, una visione naturale e organica che restituisce l’immagine di una ramificazione continua. Relazioni che divengono strutture alberate intricate quanto solo apparentemente casuali. In quegli occhi animali in attesa di un gesto come di un comando s’intuisce il tempo trascorso di generazioni osservate e di continuo rievocate dall’istinto che per noi umani è spesso solo tardiva esperienza. La fedeltà non è una supina accettazione, ma il frutto di una saggezza a cui evidentemente gli umani non hanno ancora avuto accesso.
Racconto di una famiglia allargata, il libro vive fortemente nella memoria intima e nel passato, ma rivendica una qualità di racconto che risponde esclusivamente alla percezione dell’ora, di un tempo in vita che vale più di ogni altra cosa. Ovvero della forza di una scrittura capace di trasformare i ricordi in pagine di letteratura: “Adesso in piscina ripenso ai vecchi ricordi di Piacenza. Cerco di entrare in sintonia, di essere io l’acqua dove la memoria affiora. E si scatena un affollarsi di immagini come nei sogni, dapprima confuse, poi provo a mettere a fuoco tra una bracciata e l’altra”. La scrittura biografica non si rivela mai una mera rievocazione, tanto più con questa autobiografia, in cui i fatti non sono chiamati a dover rispondere a una presunta verità.
Perché quello che conta è la vita, e le emozioni che è capace di suscitare, sia che coinvolgano il passato ora riletto in maniera inedita, sia che riguardino un futuro in cui fedeltà e infedeltà camminano fianco a fianco, felicemente.
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